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Premesso che il cervello è lo strumento con cui è possibile pensare e premesso che per vivere tutti sono costretti a utilizzarlo, rimane comunque evidente il fatto che gli umani pensanti sono soltanto una piccolissima minoranza.

La funzione primaria del cervello è quella di ragionare, ossia di trovare la soluzione più idonea per risolvere i problemi che costantemente si presentano agli esseri viventi (non soltanto umani). Probabilmente i pensieri sono semplicemente un prodotto secondario, conseguenza dell'aumentata capacità di fare ragionamenti complessi.

La condizione necessaria per pensare è la parola, intesa come concetto, con un significato preciso.

Il ragionamento invece non ha bisogno di parole, ma della capacità di riconoscere le situazioni, tramite i sensi di cui dispone l'individuo (vista, tatto, udito ecc.). Il ragionamento si traduce immediatamente in proposta d'azione, che diventa istinto, quando non c'è un'opzione alternativa. Tutti gli individui con un cervello hanno la capacità di produrre ragionamenti. Più il cervello è complesso, più opzioni produce, costringendo l'individuo a considerare ulteriori elementi per la valutazione delle situazioni, e il cervello a effettuare ragionamenti ancora più complessi. In casi estremi, per esempio di pericolo, il cervello propone un'unica opzione, che si concretizza immediatamente in un'azione istintiva.

Il pensiero, che non ha una funzione pratica immediata, è prodotto dal cervello come una manifestazione spontanea, con un meccanismo probabilmente simile a quello con cui produce anche i sogni. Gli umani pensanti sono coloro che si concentrano su questa possibilità del cervello di andare oltre il ragionamento provocato dai sensi, ma lo fanno ragionare sui pensieri che esso stesso ha prodotto, sulle parole o sulla memoria di cui dispone. La maggioranza degli umani però realizza i pensieri come passaggi frugali, che riempiono piccoli vuoti tra un ragionamento e l'altro e tra le conseguenti rispettive azioni.

Gli umani pensanti usano il cervello allo stesso modo con cui gli sportivi usano altre parti del corpo. Uno sportivo di successo deve avere una buona predisposizione fisica per la propria specialità, conoscere bene la disciplina e fare molto allenamento.
Un umano pensante può produrre teorie intelligenti soltanto se è in grado di capire situazioni complesse, se ha acquisito le conoscenze disponibili e indispensabili ai fini della sua teoria e se possiede un cervello capace di fare deduzioni logiche, anche quando le questioni diventano complicate. L'attività del pensare è simile all'allenamento dello sportivo.

Queste riflessioni iniziali riguardano la distinzione tra pensiero e ragionamento e non pretendono in nessun modo di spiegare il funzionamento del cervello da un punto di vista fisiologico, cosa che in definitiva non è ancora del tutto chiara.

La parola ha un'importanza fondamentale nella formazione dei pensieri (teorie) ed è dunque indispensabile che abbia un significato inequivocabile. La definizione di un concetto (parola) è la condizione necessaria per poter comunicare con gli altri. In campo astratto (filosofico) le parole hanno spesso significati flessibili e provengono da altre parole con significati molto concreti, come nel caso del «pensiero» da «pensum», un'unità di misura della lana.

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Il pensiero non serve a risolvere i problemi elementari della vita di tutti i giorni, ma a cercare risposte alle domande che assillano da sempre gli esseri intelligenti (curiosi). Che gli umani pensanti non siano molti è dimostrato proprio dalla scarsità di definizioni delle parole che riguardano concetti astratti. Per esprimere una qualsiasi tesi, si è costretti a lunghissime spiegazioni sul significato delle parole usate.

Malgrado l'innegabile contributo della filosofia al progresso dell'umanità, pochissime teorie filosofiche sono universalmente accettate come verità assolute, contrariamente a quanto avviene per le scoperte o le teorie scientifiche. I significati flessibili delle parole rendono flessibili anche i concetti filosofici.

Il linguaggio serve innanzitutto a distinguere e a comunicare agli altri situazioni particolari, per esempio di pericolo, di possibilità di nutrirsi, di attrazione sessuale o disponibilità ad accoppiarsi, oppure di rivendicazione sul territorio. Tutti i possessori di cervello sanno comunicare in qualche maniera ad altri queste fondamentali informazioni, pertanto hanno sviluppato anche un linguaggio, che diventa più complesso se con esso si sanno anche indicare o descrivere oggetti, altri individui, o localizzare posti particolari, e che diventa astratto quando si riesce a descrivere sensazioni o a spiegare i comportamenti.

Osservando con distacco i comportamenti umani, appare subito evidente che alcuni (molti) non sono il frutto di riflessioni logiche o di nozioni acquisite, ma piuttosto il prodotto della storia dell'evoluzione.
La necessità di vivere con gli altri, o viceversa l'incapacità di vivere da soli, per esempio, oppure il bisogno di avere legami affettivi anche in età adulta, e non soltanto tra genitori e figli o nel rapporto di coppia, indicano chiaramente l'abitudine di appartenere a un branco, com'è consuetudine per quasi tutti i primati.

Lo stesso vale anche per l'innato piacere alla competizione, che si traduce in gare e giochi d'ogni tipo, ma anche in lotte (guerre) per mantenere i privilegi propri o del branco. La conseguenza è il naturale rispetto (ammirazione e sottomissione) che si ha per il vincitore, per il potente, per il più forte, per il più ricco, accettati come capo, come re e a volte perfino come dittatore. Ci si meraviglia spesso che le dittature possano resistere così a lungo nelle società umane, ma, osservando i comportamenti degli altri primati, ci si rende conto che succede esattamente la stessa cosa nei branchi di gorilla o di scimpanzé, anche quando il capo è un tiranno. Agli effetti della sopravvivenza nella giungla, la forza è probabilmente la dote più importante per difendere il branco. La continua competizione tra gli altri individui del branco ha la funzione di preparare la successione del capo.

Uno dei fenomeni più interessanti, per chi osserva i comportamenti umani, è quello delle spiegazioni soprannaturali, ancora oggi accettate e credute, che riguardano gli aspetti più importanti della vita dei singoli e del gruppo, delle gerarchie, degli atteggiamenti di fronte alle disgrazie o alla morte. È probabile che i primi umani pensanti abbiano cercato spiegazioni sui fenomeni più evidenti e più inspiegabili come la luce e il buio, il sole, la luna, il caldo e il freddo, il temporale, il vento, la vita e la morte.
È abbastanza comprensibile che tutti questi fenomeni apparissero come soprannaturali a chi non poteva ancora darne una spiegazione razionale, ma iniziava appena a porsi il problema in modo astratto. È ipotizzabile anche il fatto che la comunicazione attraverso le parole abbia dato inizio al pensiero astratto, e che i primi pensanti abbiano capito presto che il pensiero comunicato poteva rappresentare una forza alternativa o complementare e dare potere a chi lo usava, impressionando i propri simili.

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Probabilmente ci si sarà accorti anche di un fenomeno di una semplicità e di una banalità incredibile, che ancora oggi funziona in modo sorprendente, ed è quello di ottenere potere semplicemente attraverso l'auto celebrazione: «Io sono il più grande», «Io sono discendente degli dei», «Io sono figlio di Dio», «Io sono colui che sono», «Io sono il profeta», «Io sono il prescelto per salvare il mio popolo», «Io sono il migliore presidente degli ultimi decenni» ecc.
Aggiungendo a tutto questo la pretesa di avere collegamenti diretti e privilegiati con il soprannaturale o con i defunti, un po' di cerimoniale, di travestimenti imponenti e di posizioni rialzate come altari, troni, o forse piramidi, si rafforza e si mantiene il proprio potere, senza dover ricorrere soltanto alla lotta fisica.

Solo così si spiega il successo immediato, universale e così duraturo dell'invenzione della religione. La disponibilità degli umani di accettare un capo è talmente forte e innata, che si sottomettono sempre a chi ha abbastanza carisma, vale a dire a chi sa produrre un'illusione ottica e acustica della propria superiorità (con l'aiuto di dio).

I comportamenti degli umani sono molto più influenzati dalle abitudini ataviche, che dalle loro riflessioni o dai loro pensieri. I concetti alla base delle strutture societarie sono sovente pre-concetti o pre-giudizi che riguardano il branco, i confini del proprio territorio, la religione e le sue regole, piuttosto che la razionale utilità di vivere bene insieme.

Il problema della convivenza è reso difficile proprio dalla religione, che interpreta perfettamente l'esigenza degli umani di avere un «grande» capo, onnipotente, infallibile, che si occupa esclusivamente del proprio branco, ma rende impossibile accettare altri branchi nello stesso territorio, con altri capi, ugualmente onnipotenti.

Nessun progresso scientifico è stato sufficiente per rimuovere la memoria ancestrale degli umani. Il loro modo di essere dipende più dalla memoria che dall'intelletto.
La memoria quindi, di cui non si parla e su cui non si fa abbastanza ricerca scientifica, è onnipresente, non soltanto nei codici genetici, ma probabilmente anche come memoria collettiva o memoria universale, che lascia in qualche modo un'impronta accessibile.

Una delle possibili prove di questa teoria sulla memoria accessibile si trova in certi fenomeni interessanti, già descritti dal biologo Henry Walter Bates a metà dell'ottocento, che si incontrano in natura. Il disegno di due occhi sulle ali di una farfalla, che la protegge dagli attacchi di predatori, perché sono identici agli occhi di un rapace che vive nella stessa zona, come arriva ad essere riprodotto in quel modo?
Una serpe innocua con un disegno a strisce esattamente uguale a quello di un serpente velenoso, di una specie completamente diversa, non può aver deciso di colorarsi da sola in quel modo per spaventare i suoi possibili predatori.
L'idea che tutto avvenga soltanto per selezione naturale è troppo limitata e non basta a spiegare questi fenomeni così particolari. L'evoluzione della natura è un fatto evidente di adattamento ai continui cambiamenti, ma la mutazione deve prima essere provocata da qualcosa, poi la selezione naturale deciderà se sia utile.

Sulle cause di questi mutamenti sarebbe veramente interessante approfondire la ricerca:
I cambiamenti potrebbero essere provocati o influenzati dall'interferenza di memorie accessibili?
Oppure certi tipi di malattie, come il cancro, sono tentativi di mutazioni?
La memoria riguarda soltanto il cervello dei singoli o esiste una memoria collettiva ugualmente accessibile? E dove si trova?
Potrebbe darsi che la memoria universale si consolidi attraverso la ripetizione?
Quello che si sa è che c'è ancora molto da scoprire e da capire, mentre si perdono il tempo e le risorse intellettuali con stupide discussioni sulle teorie del «creazionismo» o con facoltà universitarie di teologia,

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conseguenza diretta dell'accettazione incondizionata della religione e del grande capo.
La reazione spontanea di fronte a idee diverse, mai espresse in precedenza, non è quella di provare a rifletterci, ma quella di confrontarle subito con gli schemi preesistenti e consolidati e quindi di demolirle, prima di provare a considerarle.

Spesso, nel corso della storia, le idee intelligenti e liberatorie non sono state accettate per mancanza di carisma di chi ha provato ad esprimerle. Al contrario, le più grandi e disastrose stupidaggini sono state accettate dalle masse soltanto per la forza di convinzione, vale a dire per il carisma, di chi le propagava.

La religione, oltre ad essere il maggiore problema dell'umanità, causa di tutte le guerre, le sofferenze, le sottomissioni, le deportazioni, l'eliminazione fisica o il terrorismo, rappresenta anche il principale freno allo sviluppo.

Tentare di demolire, una per una, le varie credenze religiose, che sono probabilmente centinaia di migliaia, anche se raggruppate in famiglie, all'interno delle quali si trovano i maggiori conflitti, sarebbe un compito interminabile, noioso e assolutamente inutile. Il fatto stesso che ci siano così tante credenze diverse e contrastanti tra di loro è già la dimostrazione palese che non possono essere tutte vere.

Il problema principale della religione è che ognuna è definita unica, vera, assoluta, dimostrata dai miracoli e dalla grandezza e dalla perfezione dei rispettivi grandi capi. Tutti quelli che non condividono la credenza sono pagani, infedeli, eretici, maligni, stranieri, extracomunitari, goyim, protestanti e vanno combattuti o, forse, tollerati o integrati o convertiti.
La religione è una parola che non conosce plurale. Per ogni credente c'è una sola religione giusta. Il resto è tutto falso.

Le eccezioni a questa regola, rappresentate da un'apparente tolleranza orientale, che consente per esempio ai buddisti di non escludere altre tradizioni filosofico-religiose, non indicano assolutamente che esiste una pluralità religiosa, ma semplicemente un adattamento, che combina credenze di diversa provenienza in un'unica religione, senza che le sia dato un altro nome. Medesimo discorso, ma in questo caso con un nome, vale per il movimento «new-age».

Volendo fare una graduatoria sulla tolleranza religiosa, si può osservare che il politeismo, diffuso anche in tutta Europa fino alla cristianizzazione forzata, aveva meno difficoltà ad accettare nuove divinità provenienti da altre culture, rispetto a quanto succeda col monoteismo.
Né gli antichi greci, né i romani e nemmeno gli invasori barbari hanno mai preteso che le popolazioni conquistate cambiassero religione. Le vere guerre di religione sono in realtà un'invenzione cristiana.

La sciocchezza della religione è dimostrata anche dal fatto che, in quasi tutti i casi, la (o le) divinità sono completamente personalizzate, addirittura con tutte le caratteristiche fisiche e le debolezze umane. Persino nel monoteismo, dove il nome del gran capo non era (o non è) nemmeno pronunciabile, si è trovato il modo di personalizzarlo attribuendogli un figlio umano o un profeta massimo, che parla in suo nome. Nelle credenze primitive, alcune divinità potevano essere rappresentate dalla montagna, dall'acqua, dal bosco o dal sole o dai pianeti, sempre però da cose visibili e percepibili dagli umani.
Con queste credenze si vorrebbe ancora oggi dare una risposta alle origini del tutto, pur avendo un'idea un po' più precisa sull'età e sull'immensità dell'universo. Inoltre, considerando le complicazioni sulla relatività dello spazio e del tempo, sulla materia e sull'antimateria, è chiaro che il presunto creatore universale dovrebbe assumere caratteristiche ben diverse da quelle antropomorfe delle varie divinità religiose.

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L'idea di un dio onnipotente, onnipresente, onnisciente, da sola non fa una religione. Questa idea da sola, equivale a dire: non so chi sia o cosa sia o come sia.
La religione inizia quando si vuole raccontare chi è, cosa ha detto e come ha fatto, quando l'ha fatto, a quale popolo eletto ha affidato tutto questo e come si chiamava il primo umano.

Da un punto di vista strettamente ateo (altra parola che meriterebbe una definizione precisa), religione è tutto ciò che non può essere messo in discussione, ma deve soltanto essere creduto e accettato come l'unica verità possibile, con pene terribili per chi osa manifestare dubbi.
Quindi religione è anche fascismo, comunismo e qualsiasi altra ideologia che non permette dubbi o discussioni, per cui anche l'ecologia «catastrofista».
Vi sono movimenti, come la massoneria, che pretendono di non essere religioni, ma ne hanno esattamente tutte le caratteristiche, incluso il cerimoniale e i travestimenti.

Ateo è chi non ha risposte assolute ai grandi quesiti, chi si rende perfettamente conto del fatto che non ci sono tutte le risposte e che quelle disponibili provocano soltanto nuovi dubbi e nuove domande, a volte ancora più importanti e complicate.
Purtroppo perfino «ateo» è parola di provenienza religiosa e viene spiegata in genere unicamente da un punto di vista teologico. Meglio sarebbe definirsi «antireligioso».

Un'altra falsità è ritenere che la religione, con la sua morale, impedisca i delitti e le nefandezze. È vero esattamente il contrario. In nome della religione si sono commessi e si perpetrano i maggiori crimini e i peggiori massacri, e ancora oggi si sottomettono con la dittatura religiosa intere nazioni, si impedisce alla gente di proteggersi dalle malattie più gravi, si discriminano le persone se non corrispondono ai canoni della morale, si sacrificano tutte le libertà individuali, si tollerano ingiustizie, ci si attribuiscono diritti che provengono soltanto da pregiudizi religiosi, si nascondono e si coprono i peggiori comportamenti.

La morale non è altro che una serie di leggi e di regole definite dalla religione. Spesso queste regole sono talmente presenti, da così tanti secoli nella società in cui si vive, da ritenerle addirittura innate, finché non si incontrano altre società con altre regole ugualmente ataviche, ma differenti. Non esiste una morale universale, ma ogni religione ha le proprie leggi e le proprie regole, che purtroppo non combaciano nemmeno con i più elementari diritti dell'uomo.

Per evitare malintesi è bene stabilire il vero significato della parola «morale» e non confonderlo col significato della parola «etica» (laica, non religiosa), che ha realmente una valenza universale e che deriva dalla logica volontà di convivere in pace. La carta universale dei diritti dell'uomo, del bambino e anche quella dei diritti degli animali, coincidono perfettamente coi valori etici.
L'etica non è diminuita o relativizzata nemmeno dalle varie attribuzioni professionali, che anzi fanno appello a una maggiore responsabilità e quindi a maggiori doveri per chi fa il medico, il ricercatore, l'avvocato, il giornalista o il politico.

Un altro concetto che fa capo unicamente alla religione è quello della coscienza. La coscienza non ha mai impedito delitti quando sono stati commessi in nome della religione, per esempio durante le inquisizioni: gli inquisitori ritenevano addirittura santa la loro missione. Allo stesso modo i gerarchi nazisti non avevano problemi di coscienza, quando facevano ammazzare milioni di ebrei. Erano circondati da un ambiente che li lodava e li gratificava per quello che facevano e che tutti ritenevano giusto.
Sbagliata è anche l'idea astratta di bene e di male, come valori universali, con una coscienza che li sa riconoscere in qualsiasi situazione.
La coscienza è prodotta soltanto dalla società in cui si vive, che rappresenta la religione del posto e del momento. Il giudizio negativo dei nostri simili ci mette a disagio, mentre i giudizi positivi eliminano ogni dubbio riguardante i nostri comportamenti. Su questo esistono perfino ricerche scientifiche che dimostrano e spiegano il fenomeno.

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E per finire: l'anima. Un'ipotesi che non trova nessuna conferma scientifica e che in realtà non significa assolutamente nulla, perché non si è in grado di darne una definizione, una collocazione o una spiegazione, che non rappresenti soltanto una fantasia religiosa, che tenta di eliminare o di annullare la morte, come fine della vita (umana).

Che gli umani pensanti non siano molti, forse non è un fatto soltanto negativo, perché pensando non si producono automaticamente soltanto teorie intelligenti, anzi, c'è sempre il pericolo che il pensante inventi una nuova religione.

Il problema più importante è quello del carisma di chi divulga le idee. La caratteristica principale delle persone carismatiche è la grande stima e sicurezza di loro stessi, che non si concilia troppo con i dubbi e con la riflessività dell'intelligenza. Purtroppo è sempre il carisma ad avere la meglio.

L'intelligenza non è la qualità più utile per avere successo, al contrario. L'intelligenza è la dote, il talento degli umani pensanti, quando pensano per curiosità. La domanda, il dubbio, l'incertezza sono lo stimolo al pensiero intelligente.
All'origine di tutto ci sono i sensi, che trasmettono al cervello le informazioni e gli pongono i quesiti su cui ragionare. La sensibilità aumenta la percezione e costringe il cervello a ragionamenti più complessi. La sensibilità è la capacità di captare più dettagli e quindi stimola l'intelligenza, se il cervello ne ha i presupposti e se produce curiosità, domande, dubbi, su cui attivare il pensiero.

Per avere successo è molto più utile la corazza protettiva, la pelle dura, che dà sicurezza, col piccolo svantaggio che stimola di meno il pensiero intelligente.
Gli umani interagiscono tra loro non soltanto a parole, ma soprattutto attraverso le reazioni spontanee, che li influenzano a vicenda. In questo scambio, influenza maggiormente chi ha più carisma, e subisce maggiormente l'influenza chi ha più sensibilità.
Il carisma e l'intelligenza non si escludono automaticamente a vicenda, ma spesso chi ha carisma è più portato a ragionamenti pratici (pragmatici), piuttosto che a pensieri intelligenti.
La furbizia invece è l'utilizzo del ragionamento ai fini esclusivi del proprio vantaggio e non necessita di pensiero.

Queste ultime considerazioni spiegano la lentezza con la quale si evolve l'umanità, che sempre si sottomette all'autorità carismatica, indipendentemente dal suo grado di intelligenza.
L'ignoranza, la poca sensibilità estetica, il rapporto difficile con la cultura, l'accettazione incondizionata della religione, della morale, dei capi e dei governi inefficienti, il populismo, i programmi televisivi idioti, la violenza gratuita, il vandalismo sono i sintomi più evidenti del fatto che gli umani, invece di progredire, aumentano soltanto di numero (e di peso).

Il progresso scientifico e tecnologico è prodotto da pochissimi e per le masse è praticamente incomprensibile. Non si sa e non si capisce assolutamente come funzionano i prodotti della ricerca, ma si è in grado di adoperarli e in qualche caso servono perfino a risparmiare l'utilizzo del cervello.
È vero che il sapere disponibile è in continuo aumento, ma viene da chiedersi per quale motivo sia così poco accessibile.
Da un lato scarseggia sicuramente la capacità di trasmettere il sapere da parte di quelli che ne hanno, perché non sanno immedesimarsi in chi dovrebbe imparare e spiegano facendo una gran confusione. Fanno fatica a procedere per gradi, a verificare se siano stati capiti fino a quel punto, prima di continuare con nuove complicazioni.
Dall'altro, la maggioranza non capisce comunque. Certamente questo dipende dalla mancanza di interesse (curiosità), quindi di intelligenza.

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Come al solito, anche per l'intelligenza si deve constatare che le definizioni esistenti sono alquanto vaghe e non permettono di stabilire inequivocabilmente di che cosa si tratta. Si ha l'impressione che si cerchi di relativizzare sempre tutto e la risposta più diffusa per la gran parte delle domande è: «dipende...».
A volte viene da chiedersi se sia colpa di Einstein che tutto sia diventato così relativo e più nessuno osi fare affermazioni, a meno che non si tratti di verità religiose.
Ciò nonostante è facile constatare che molti non capiscono assolutamente né le battute, né le provocazioni, né le mentalità diverse, né, ancor meno, le spiegazioni complicate.

L'intelligenza fa parte delle qualità dell'individuo che si vedono immediatamente, non soltanto dai suoi comportamenti, ma da tutto il suo modo di essere, dallo sguardo in primo luogo e dai movimenti o micromovimenti. Se ne deduce che l'intelligenza non è soltanto l'attività cerebrale, cioè la quantità o la qualità dei dati elaborati, ma la quantità e la qualità della recettività dei dati e la capacità di trasformare in deduzioni opportune i dati elaborati. La conferma definitiva del livello d'intelligenza si ha poi appena l'individuo si mette a parlare, per esempio dicendo: «Buona sera, buona sera a tutti Voi».

Pertanto l'intelligenza è il grado di comprensione che ci si aspetta da chi si ha di fronte. Ognuno ha dunque l'intelligenza necessaria e sufficiente per fare (o per essere) quello che è: bambino, meccanico, professore, cane, cavallo, con tutte le differenze che ci sono e che si vedono, all'interno di queste categorie (bambino intelligente, professore stupido e così via).
Una verifica interessante, che funziona quasi sempre, è quella di chiedere alle persone se sono intelligenti, per constatare che perfino gli stupidi sanno di non essere intelligenti. La stupidità non è una malattia, ma un basso livello di intelligenza (per la categoria).
Entro certi limiti, l'intelligenza può essere anche stimolata da altra intelligenza, soprattutto nei bambini. La stupidità è la mancanza di stimoli, di curiosità, di provocazioni.

Che differenza c'è dunque tra l'intelligenza umana e quella degli altri esseri viventi con un cervello strutturato? Nessuna. Il problema è soltanto quello delle competenze. Alcuni animali hanno la capacità (e la necessità) di ragionare e di reagire in maniera molto più veloce di quanto non sappiano fare gli umani col loro grosso cervello: per esempio gli uccelli, quando si muovono in stormi. Se gli umani sapessero fare altrettanto, non ci sarebbero mai gli ingorghi sulle strade. Questi ultimi dipendono soltanto dalla lentezza con cui gli automobilisti reagiscono prima di ripartire. Quando sono fermi in colonna, passano secondi prima che gli autisti realizzino che ci si deve muovere e le code continuano ad allungarsi. In genere non capiscono nemmeno che le code si formano dietro, non davanti.
Impressionante è anche la capacità degli uccelli migratori di orientarsi, di valutare le condizioni meteorologiche e di percorrere fino a diecimila chilometri per stagione, ritrovando il posto esatto da cui sono partiti. Si sottovaluta sempre anche la capacità degli animali di comunicare tra loro. Senza comunicazione, non potrebbero mettersi in viaggio tutti insieme, riconoscere i loro figli, collaborare nella caccia o nella costruzione delle loro abitazioni. Spiegare questo semplicemente con la parola «istinto», senza preoccuparsi nemmeno di sapere cosa sia, è un altro segno di stupidità.

È innegabile che esistano componenti istintive in tutti gli esseri viventi, ma è altrettanto evidente che alcuni non hanno bisogno di cervello per nutrirsi e per svilupparsi (vegetali), mentre altri non possono fare nulla senza ragionamenti. Più sanno risolvere problemi complessi, più gli esseri viventi sono intelligenti. Il fatto che alcuni funzionino in gruppi, in modo perfettamente coordinato, non significa assolutamente che questo richieda meno intelligenza da parte del singolo, che semmai deve avere delle sensibilità in più per capire immediatamente cosa deve fare.

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Dove si trova l'istinto? Indubbiamente l'intelligenza dipende dell'attività cerebrale. Ma l'istinto è parte del programma genetico? Non sembra molto verosimile. La funzione dei geni è quella di far sviluppare le cellule in una certa maniera e di fare in modo che l'essere vivente diventi e sia quello che deve essere. Il cervello non ha nessuna possibilità di influenzare il programma genetico.
L'istinto invece è la necessità, la spinta, il motore che stimola a fare certe cose in determinate situazioni. Se al cervello arriva un certo tipo di informazione, l'istinto la traduce in proposta di azione, compatibilmente con le situazioni del momento: fame - mangia, pieno - smetti.
Il sistema però non è così lineare, ma continuamente intralciato da altri istinti (stimoli), che rendono flessibile lo svolgimento del programma e obbligano il cervello a ragionare e a tenere conto dei vari stimoli. Normalmente vince quello più forte (per esempio l'istinto di sopravvivenza), ma anche questa regola può essere sovvertita da avvenimenti straordinari, che riescono a modificare le priorità istintive.

È molto probabile che anche l'istinto abbia una relazione diretta con la memoria individuale e collettiva. Azioni ripetute molte volte diventano azioni istintive. Che ciò avvenga all'interno del cervello appare scontato, per quanto riguarda la memoria individuale, ma come funziona il meccanismo della memoria collettiva o della memoria ancestrale? Gli individui possiedono già una memoria alla nascita oppure possono accedere a una memoria esistente? Esistono fenomeni di memoria anche per altre parti del corpo, che non siano il cervello?

Si sa per certo che la memoria degli uccelli migratori non sopravvive, se questi non migrano per generazioni. Un uccello della famiglia degli ibis (una specie di avvoltoio europeo), sopravvissuto soltanto in cattività per oltre quattrocento anni, quando è stato rimesso in libertà in Baviera, qualche anno fa, alla fine dell'estate sentiva l'istinto di migrare, ma non sapeva assolutamente dove andare. Gli ornitologi, che avevano notizie storiche dei luoghi in cui questi uccelli in passato trascorrevano l'inverno, insegnarono loro il percorso per raggiungere una località della Toscana, con l'impiego di aerei aperti e ultraleggeri, avendo stabilito con gli uccelli un legame speciale di imprinting. Da allora, una colonia di questi avvoltoi (chiamati Waldrappen) migra regolarmente tra la Baviera e la Toscana. Evidentemente questa componente istintiva non si trovava nei loro geni, ma è tornata ad essere presente nella loro memoria.

La memoria ha diversi gradi e stadi di fissazione. Non tutto quello che si è visto e vissuto, viene ricordato automaticamente allo stesso modo. Chiaramente la ripetizione rafforza la memoria, ma anche l'età modifica il grado di apprendimento e quindi la capacità di ricordare. Sicuramente avviene un fenomeno che c'entra in qualche maniera con l'apertura e la chiusura del cervello. Quando le cose impressionano, cioè toccano, incuriosiscono, provocano l'apertura del cervello, che memorizza e ricorda. Il vero quesito è sempre quello di sapere se anche la memoria collettiva, atavica è tutta presente soltanto nel cervello dei singoli individui, oppure se esiste una memoria al di fuori del cervello e dove si trova.
Ci sono fenomeni, tipo la cristallizzazione dei minerali, che non si possono spiegare con la memoria genetica eppure si riproducono in modo uguale, ma non perfettamente identico.
Capire che in certe situazioni, a certe temperature o pressioni le molecole dei diversi minerali si allineano in un certo modo, non è ancora una spiegazione del perché.
Sarebbe interessante approfondire questi argomenti nella ricerca scientifica. Un giorno si potrebbero avere risposte e spiegazioni non soltanto a singoli quesiti, ma ottenere una visione più chiara su cose di cui tutti parlano, con termini che tutti usano, ma a cui ognuno attribuisce il significato che vuole.

Certamente è necessario eliminare prima tutti i pregiudizi religiosi e le premesse soprannaturali che continuano a limitare e a frenare il progresso. È necessario porsi le domande, non soltanto da un punto di vista specifico per esempio medico o psicologico o psichiatrico, ma rimettere in discussione alcune conoscenze acquisite e separare un po' meno le varie

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discipline come la biologia, la chimica, la medicina, la fisica e forse soprattutto l'informatica, che sembra l'unica scienza a occuparsi della memoria e dell'intelligenza.

Nell'analisi dei comportamenti umani, non si può trascurare la volontà. In filosofia molte volte, con lunghe dissertazioni, la volontà è stata identificata come il risultato del libero arbitrio. In realtà si tratta di un atteggiamento possibile, che caratterizza solo una parte di individui.
Riprendendo i concetti di apertura o di chiusura, quali cause di maggiore o minore intelligenza, si possono immaginare le persone con una forte volontà come individui né aperti, né chiusi, ma con una struttura mentale che assomiglia a un tunnel, con un'unica apertura alla fine. Questo consente loro di concentrarsi sui traguardi che si fissano e che rappresentano l'unica uscita dal tunnel. Quest'ultimo impedisce di disperdersi e protegge dalle distrazioni (curiosità). I risultati ottenuti (successo) sono gratificanti e stimolano la costruzione di nuovi tunnel, più forti e più sicuri, che aiutano a raggiungere sempre meglio i nuovi traguardi.
La volontà richiede sforzo, concentrazione e impegno, ma anche un'assoluta chiarezza sugli obiettivi che si vogliono raggiungere. Il libero arbitrio c'entra molto meno della predisposizione naturale e della forza di attrazione che ha sull'individuo il traguardo finale.
Più la forza di attrazione è importante per l'individuo, più diventa spontanea la costruzione di tunnel, cioè meno possibilità ci sono per l'individuo di non fare quello che deve fare.
Le rondini, in autunno, non si pongono il problema di non aver voglia di fare quel lungo viaggio.Lo stimolo è talmente forte da non permettere ipotesi alternative.
Per gli umani, il problema è spesso l'importanza relativa del traguardo e la quantità di buchi che ci sono nei tunnel. Pochi riescono a focalizzare un traguardo per volta, in modo così esclusivo da concentrare tutti i loro sforzi unicamente su quello. La curiosità e l'intelligenza ostacolano la concentrazione.
A volte l'importanza degli obiettivi è addirittura provocata e rafforzata da situazioni traumatiche.

Il confine tra istinto e volontà di raggiungere un obiettivo non è così evidente. Nei due casi si tratta di uno stimolo presente negli individui, perciò di un programma che può o che deve essere eseguito, se lo stimolo è molto forte. Quindi di una memoria.

Tutte queste considerazioni sui comportamenti, non sono spiegazioni scientifiche su come funzionano i meccanismi, ma sono soltanto constatazioni derivanti da semplici deduzioni logiche, che si possono fare osservando gli umani o gli altri esseri viventi.

Quasi tutte le teorie dei maggiori filosofi del passato sui comportamenti degli individui, sono influenzate da presupposti religiosi. I pochi filosofi che si pretendevano atei, alla fine erano marxisti o fascisti o psicanalisti. La laicità moderna pretende soltanto di non offendere nessuno e dare ragione a tutti. L'unica verità assoluta è che ogni stupidaggine religiosa impedisce una visione oggettiva, logica e semplice da cui partire per studiare, senza pregiudizi, i fenomeni ancora sconosciuti.

Le scoperte che dal cervello arrivano gli impulsi per la produzione di ormoni, di adrenalina e di proteine varie, a dipendenza delle situazioni, non sono ancora la spiegazione di tutte le cause che provocano il funzionamento così complicato della vita degli individui. È probabile che la paura, la gioia, l'attrazione sessuale, l'innamoramento e molte altre sensazioni simili tipo il caldo, il freddo, la sensazione di benessere o di malessere, persino le infezioni, provochino nel cervello reazioni spontanee, che si traducono in fenomeni fisiologici o modificano le condizioni psichiche, rendendo addirittura difficile distinguere tra causa ed effetto, tra sentimenti e reazioni fisiche o chimiche.
Queste interessantissime scoperte non danno nessuna spiegazione alla questione più importante, che è quella di sapere perché esistono queste reazioni spontanee e a quale memoria fanno capo.

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Le grandi teorie sul conscio e subconscio sono ugualmente memorie di cui il cervello tiene conto per il suo funzionamento, ma di cui si danno soltanto spiegazioni fantasiose di tipo psicanalitico, alle quali si può solo credere o non credere (quindi religione).

L'approccio filosofico antireligioso non dà nessuna spiegazione dei fenomeni, semmai permette di osservare, analizzare, constatare e capire che ci sarebbero ancora moltissime curiosità da soddisfare e sperare che col tempo si trovino nuove risposte scientifiche. La religione non è la risposta, e se vuole esserlo è comunque soltanto una risposta inventata, senza obbligo di prove scientifiche, che sempre limita e a volte impedisce la ricerca.

Liberarsi dalla religione, non soltanto da quella locale, che ci coinvolge maggiormente, ma da tutte le varie forme di religione che costantemente appaiono e diventano la cultura del momento, è forse l'unico modo per accelerare il progresso. Per far questo è necessario capire molto bene cosa sia la religione e come la si riconosce.
Quando non si può più discutere su un argomento, senza offendere qualcuno, si tratta, con tutta probabilità, di religione o di qualcosa che sta per diventare religione. Tutti i fondamentalismi (da non confondere con i radicalismi, spesso soltanto provocatori), che non ammettono dubbi sulle cause del riscaldamento della terra, sul bene e sul male, su chi ha creato il mondo, sulle autorità infallibili, su personaggi importanti, sui confini nazionali, sull'omeopatia, sull'importanza universale di certi sport, sull'utilità di qualche club esclusivo, e su mille altre verità assolute, sono sintomi riconoscibili che si tratta già di religione.

La religione è talmente presente in qualsiasi aspetto delle società umane, che la lotta contro questo fenomeno, causa di tutti i guai dell'umanità, è assolutamente impari e con scarsissime possibilità di riuscire a smuovere qualcosa. Ciò nonostante è lecito immaginare un mondo libero, fatto di esseri pensanti, alla ricerca di spiegazioni concrete. Un mondo senza pregiudizi, senza differenze fra ebrei e arabi, tra cristiani e mussulmani, tra cattolici e protestanti, tra comunitari ed extracomunitari, tra campanili e minareti, tra donne arabe velate e suore cattoliche, tra la barba di Bin Laden e quella del frate Callisto. Un mondo in cui i confini sono visti per quello che sono, cioè un fatto amministrativo di competenza politica e non di proprietà territoriale. Un mondo in cui gli umani hanno il diritto di muoversi e di fermarsi, come hanno sempre fatto.

Un mondo in cui le regole non sono fatte in nome della religione, ma della volontà di vivere insieme, senza darsi fastidio a vicenda.
Che questo sia difficile anche senza religione appare scontato, ma che con la religione sia assolutamente impossibile è dimostrato dalla realtà quotidiana.

Un mondo senza religione non è per nulla un mondo senza regole. Le regole però dovrebbero essere finalizzate alla convivenza di tutti, non soltanto dei cittadini di un paese o dei membri di una religione. L'idea di globalità dovrebbe finalmente trovare applicazioni pratiche, che non riguardano soltanto le questioni commerciali o tecnologiche, ma che permettono dappertutto una convivenza pacifica.
È chiaro che gli umani non sono fatti per andare d'accordo tra loro e che difficilmente sono in grado di vivere assieme senza produrre conflitti. Per questo non si può fare a meno di leggi, che a loro volta dovrebbero sottostare a regole più generali e fondamentali, basate su criteri etici di elementare buon senso. Principi fondamentali che abbiano lo scopo di permettere a tutti di vivere dignitosamente, di impedire i conflitti armati, per esempio abolendo gli eserciti e le armi dei singoli stati, di permettere sempre libere elezioni in cui i governanti locali sono eletti per un periodo di tempo limitato, di garantire alle minoranze il diritto di esistere, di comunicare e di fare opposizione.
Per questo forse l'ONU dovrebbe diventare molto più importante, più democratica di quanto non sia oggi ed essere messa in grado di far rispettare veramente i diritti umani in tutti gli stati, senza però diventare il grande fratello o un'altra istituzione burocratica, che stabilisce norme sulle dimensioni dei cetrioli.

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L'ONU è una delle poche strutture laiche, fondate soltanto sul buon senso e sulla logica, ma purtroppo manca ancora di vero prestigio e di potere, essendo troppo sottomessa ai veti delle grandi potenze. Fatica a svolgere un ruolo indipendente di ente costituzionale di controllo, col compito di verificare se l'organizzazione e le leggi degli stati garantiscano dappertutto i diritti delle minoranze, permettendo un'opposizione democratica. Probabilmente sarebbe anche giusto che l'ONU avesse gli strumenti per impedire le dittature, o per combattere la corruzione, e non soltanto per intervenire nei conflitti armati quando lo decidono gli Stati Uniti d'America.

Spetta alla politica stabilire le regole alla base delle quali ci sono i valori in cui i partiti si identificano. Purtroppo la gran parte dei valori, che ancora si vogliono difendere, deriva da pregiudizi religiosi, piuttosto che da analisi laiche e oggettive. Questo spiega e giustifica la difesa dei privilegi e dei vantaggi di pochi a discapito degli altri.

Uno dei valori maggiormente declamati è quello dell'indipendenza nazionale, ma ci si può chiedere: da cosa si vuole essere indipendenti? Generalmente si vuol essere indipendenti da altri stati, con altre regole e con un'altra religione. Questa esigenza nasce sicuramente dal fatto che sempre ci sono stati soprusi da parte dei più potenti nei confronti dei più deboli.
Se però i paesi confinanti sono diventati tutti delle democrazie, simili alla propria, senza nessuna pretesa territoriale nei confronti di altri stati, diventa normale una maggiore condivisione delle regole e un'apertura dei confini, che semplifica la vita di tutti.

L'apertura o la chiusura fanno parte da sempre degli atteggiamenti fondamentali degli umani e da sempre l'apertura ha facilitato il progresso, la convivenza, lo scambio culturale e la libertà, mentre la chiusura ha facilitato solo l'intolleranza, la repressione e purtroppo anche le guerre.

I concetti di patria, con una propria costituzione scritta in nome di dio onnipotente, di bandiera, con al centro un simbolo religioso, di inno nazionale, in cui si loda il dio che protegge il paese, di esercito a difesa dei confini nazionali, sono tipici di uno stato fondamentalista religioso e non hanno nulla di laico e di aperto.
Tutte queste realtà sono le premesse con le quali si legifera, si governa e si prendono decisioni in nome della democrazia, intesa naturalmente come un diritto che riguarda soltanto i cittadini del proprio paese.

È naturale che in un mondo fatto di nuove grandi potenze economiche delle dimensioni di un continente, vi sia anche in Europa la necessità di un raggruppamento territoriale con strategie condivise dalle varie nazioni.
Che la costruzione Europea non sia ancora perfetta è assolutamente evidente, ma si tratta pur sempre di una struttura totalmente nuova e per la quale non si possono copiare da altre parti le modalità di attuazione.
Nessuna organizzazione di questa natura e di queste dimensioni è mai stata realizzata in modo così pacifico e spontaneo, senza invasioni, senza costrizioni, senza guerre, con sacrifici contenuti e migliorando in tempi brevissimi il livello di vita dei suoi cittadini, soprattutto di quelli appena usciti dalle dittature (fasciste e comuniste).

L'isolazionismo di un piccolo stato al centro di questa costruzione, che si ostina a difendere i suoi privilegi, derivanti dalla gestione finanziaria dei miliardi non tassati nei paesi di provenienza, appare a tutti come una sfida e una provocazione che non facilita i rapporti con gli altri stati e ostacola la collaborazione di cui vi sarebbe assolutamente bisogno.

Rimanere neutrali e isolati significa non partecipare allo sviluppo di una struttura della quale nessuno in Europa potrà fare a meno in futuro, perché nessuno, malgrado le critiche e le difficoltà del momento, ne prevede l'abolizione. Ritenere sbagliato il fatto di dover pagare per i problemi altrui, equivale a ritenere sbagliata la ricostruzione dopo le guerre o la rimozione delle fonti di inquinamento o la riparazione di qualsiasi altro disastro provocato da qualcuno.

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In un'economia globale i problemi di un paese sono un problema per tutti. I rapporti commerciali più interessanti si hanno con paesi sviluppati o in via di sviluppo, non con paesi disastrati. L'aiuto e il sostegno riguardano un momento transitorio, in qualche modo un investimento, che permette di trarne benefici futuri, quando il paese in difficoltà si sarà rimesso in sesto, esattamente come si è fatto durante la crisi finanziaria nei confronti delle banche.

Poter decidere autonomamente delle proprie faccende è di certo un valore importante. Se le decisioni però riguardano soltanto uno spazio limitato, è come se all'interno di una famiglia o di una comunità abitativa si avesse il diritto di decidere soltanto sulla propria camera da letto e non sull'intero appartamento o su tutta la casa. È normale che in una comunità si deve tenere conto delle esigenze di tutti, ma se si propongono delle soluzioni valide, intelligenti, razionali, fattibili e di buon senso, è probabile che siano accettabili anche per la maggioranza degli altri paesi membri della comunità.

Né una ONU rafforzata, né una UE perfezionata rappresenteranno la soluzione di tutti i problemi dell'umanità, ma di sicuro si può sostenere che nessuna delle due organizzazioni è mai stata la causa di conflitti armati o di carestie nel mondo; al contrario, entrambe hanno contribuito notevolmente a ridurre ed evitare le guerre e ad aumentare il benessere delle popolazioni.
Non si può dire altrettanto degli stati nazionali, nati da rivoluzioni, guerre civili o d'indipendenza e in alcuni casi solo dalla spartizione del territorio fatta al termine delle grandi guerre. Stati nazionali europei che hanno colonizzato, sfruttato e convertito tutto il resto del mondo, che hanno saputo inventare le peggiori dittature e che, prima di sopportarsi a vicenda, hanno provocato i più gravi conflitti che l'umanità abbia mai conosciuto, con l'indifferenza delle nazioni neutrali.

Ritenere ancora oggi che la neutralità sia un valore e credere di essere stati preservati dalle guerre grazie ad essa, equivale a negare la storia di compromessi e di sostegno segreto alle dittature, dimostrata dalle commissioni incaricate di far luce sui fatti.
Illudersi di poter continuare a mantenere vantaggi e benessere soltanto negando ai vicini diritti e collaborazione, equivale a seguire il populismo e la logica dei partiti dei contadini o delle leghe regionali. È innegabile che sia assolutamente legittimo avere opinioni diverse a favore o contro una maggiore integrazione nell'organizzazione europea. Inaccettabile e totalmente controproducente è la negazione totale e pregiudiziale delle istituzioni europee e di tutti quelli che non sono membri del piccolo gregge di pecore (bianche) o che non fanno integralmente parte del fondamentalismo nazionale.

Una nazione, uno stato non è una proprietà esclusiva dei propri cittadini, ma un luogo da cui si proviene e in cui si hanno un certo numero di doveri e di diritti. Diritti che in un mondo globale si vorrebbero e si dovrebbero avere anche altrove, così come si dovrebbe avere la libertà di decidere dove si desidera lavorare, dove si vuole comperare o vendere e dove si vorrebbe vivere. Gli «altri» non sono soltanto intrusi o delinquenti, ma persone che hanno il diritto di esistere e di essere rispettate comunque e in qualsiasi posto.

La libertà di movimento non può essere soltanto un privilegio di pochi o un diritto limitato a pochi luoghi. La libertà è pur sempre uno dei massimi valori da difendere, continuamente minacciata da tutte le chiusure fisiche e mentali. Soltanto l'apertura si concilia con la libertà.
La prima e la più grande minaccia alla libertà è la religione che vorrebbe impedire e punire perfino la libertà di pensiero. Il nazionalismo, il comunismo, i confini nazionali, l'intolleranza, la stupidità, la prepotenza, il militarismo, le leggi improvvisate e ingiuste (illogiche), il pressappochismo, sulla base del quale si sentenziano presunte verità assolute, sono tutti atteggiamenti che limitano la libertà dei singoli, in nome di ideologie discutibili.

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I limiti della libertà sono già talmente tanti e talmente fisiologici e inevitabili, che appare insopportabile che alcuni pretendano di avere il diritto di limitare e di negare la libertà di intere popolazioni attraverso minacce, ritorsioni, suggestioni e punizioni.

La libertà non è un valore assoluto e incondizionato, ma semplicemente il diritto di esistere, quindi di pensare e di agire, per come si è, nel rispetto di tutti gli altri con cui si vuole (e si deve) convivere. La libertà implica soprattutto senso del dovere e rispetto per gli altri (esseri viventi).
Ad ogni libertà corrisponde un dovere, necessario alla convivenza. Comandare e decidere è lecito, quando si assumono anche tutte le responsabilità della funzione di capo (inteso come responsabile). In una gerarchia, in un'organizzazione, anche i subalterni hanno funzioni di responsabilità e dovrebbero essere convinti delle decisioni prese e che queste ultime non siano semplicemente imposte dai superiori.

Amare e difendere la libertà significa amare e difendere la libertà degli altri, anche dei religiosi, che devono avere sempre il diritto di credere e di essere quello che vogliono essere, se non pretendono di imporre agli altri le loro credenze (come fanno i missionari o i fondamentalisti islamici). La propria libertà la amano tutti, specialmente i tiranni e i dittatori.
Nessuno è proprietario del mondo, dell'impero, della nazione o di altri individui. Tutti gli esseri viventi meritano rispetto (che non significa per forza ammirazione o amore incondizionato).

Amare la libertà significa essere liberali, senza la pretesa di condizionare gli altri, senza la pretesa di sapere tutto, senza la pretesa di essere in grado di dare tutto a tutti, di saper fare tutto alla perfezione, di saper eliminare ogni fonte di inquinamento o di assicurare a tutti la vita eterna.
Essere liberali significa essere aperti e favorevoli a tutte le decisioni di apertura e contrari a ogni forma di proibizionismo inutile e di chiusura.

Posizioni più liberali o meno liberali sono sempre esistite, in ogni epoca storica e in ogni organizzazione sociale, militare, statale o perfino religiosa. La parola «liberale» ha un significato ben preciso che purtroppo è abusato e utilizzato anche da raggruppamenti, organizzazioni e partiti che di liberale non hanno assolutamente nulla.
«Partito delle libertà», «Freiheitspartei» o «Freiheitliche Partei» esprimono molto bene il concetto della libertà pretesa dall'ideologia di questi raggruppamenti. Si tratta sempre di difendere le proprie libertà.

Col liberismo invece si vogliono soltanto eliminare regole considerate restrittive, soprattutto, quando queste impediscono il facile e rapido arricchimento di pochi. Il liberalismo non presuppone l'abolizione delle regole, ma si oppone al conservatorismo e all'egualitarismo e in generale a tutte le limitazioni della libertà, se non sono strettamente necessarie alla convivenza democratica e pacifica di tutti.

È fastidioso che in certe situazioni i veri liberali, per differenziarsi dai conservatori, difensori dei propri privilegi, debbano aggiungere il rafforzativo «radicale» al termine naturale che li caratterizza.
Soltanto i liberali, però, possono essere radicali, senza per questo diventare fanatici intolleranti. Se i leghisti, che si occupano unicamente degli interessi propri e di alcuni autoctoni, rafforzassero in modo radicale le loro teorie, non sarebbero più distinguibili dai nazionalisti fascisti. Se si radicalizzano i socialisti diventano comunisti, e quando lo fanno i partiti religiosi inventano le inquisizioni o la «sharia». Questi radicalismi portano tutti al regime e alle dittature. Se poi si radicalizzassero i verdi, rischieremmo tutti di tornare a diventare cavernicoli.
Priva di spiegazioni logiche e di contenuti reali è invece la posizione dei «radicali» (radicali e basta), poiché il termine non esprime, da solo, il minimo contenuto o riferimento a valori.

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L'idea che in politica i partiti non possano essere fatti su misura per ogni singola convinzione, è continuamente smentita dal fatto che, in alcuni paesi, nascono ogni settimana nuovi raggruppamenti e nuovi partiti. La forza del liberalismo invece è anche quella di accettare al proprio interno una molteplicità di opinioni.
Difendere il liberalismo significa difendere il diritto di tutti ad avere opinioni diverse, che non vuol dire per nulla dover rinunciare alle proprie opinioni, ma semplicemente avere il diritto e il piacere di discutere con gli altri. Lo scopo della discussione è quello di cercare di convincere gli altri, ma indirettamente è anche l'ammissione del fatto che si è disposti a modificare la propria opinione, se gli argomenti dell'altra parte sono più logici, più intelligenti o più competenti.

La premessa per la discussione è che ci siano opinioni che si confrontano. Chi non ha opinioni, non ha nessun motivo di discutere. La discussione degenera in litigio, quando il confronto non è più tra opinioni diverse, ma tra giudizi e pregiudizi sulla controparte.
La caratteristica del mediatore in una discussione non è quella di rinunciare ad avere ed esprimere la propria opinione, ma quella di saper riconoscere e affrontare i pregiudizi.

I valori su cui si fondano le ideologie dei grandi partiti democratici sono spesso condivisibili anche dagli altri. Le differenze consistono nella graduatoria in cui questi valori sono considerati. Per i partiti religiosi, il valore massimo è quello della morale della religione di riferimento. Per le socialdemocrazie, per la sinistra in generale, il massimo valore è quello della giustizia sociale o addirittura dell'uguaglianza sociale, anche a discapito di altri valori. Per i verdi, il valore più importante è quello di cercare di impedire l'inquinamento (sempre naturalmente soltanto sulla base delle conoscenze empiriche del momento e a volte soltanto col proibizionismo). Per il fascio, per le leghe, per la destra populista, i valori da difendere sono quelli della chiusura, della difesa armata, del proprio gregge, delle espulsioni, delle proibizioni di tutto quello che non riguarda la propria cultura.
Il valore di riferimento del liberalismo è la libertà, limitata unicamente dall'etica (il senso del dovere e della responsabilità) e dall'estetica. Nessuna politica è utile e sostenibile se produce bruttezza, disordine e sporcizia (inquinamento).
La politica illuminata produce cultura, arte, architettura e favorisce la ricerca scientifica.
Anche a livello regionale e comunale la politica deve preoccuparsi di proteggere e curare l'estetica del proprio territorio e della propria architettura, eliminando le brutture e non producendone di nuove.

Tra le esigenze fondamentali degli individui, oltre al benessere, al diritto all'istruzione o alle cure sanitarie, vi è certamente quella di poter vivere in un luogo piacevole.
Probabilmente, la funzione primaria del saper differenziare il bello dal brutto, sta proprio nella necessità di dover scegliere un luogo adatto per un insediamento umano. I luoghi più belli sono quelli che hanno tutte le caratteristiche necessarie per poterci vivere comodamente: cibo, acqua, protezione, clima accettabile ecc. È facile constatare come tutti questi luoghi ideali siano da sempre luoghi abitati.

Voler relativizzare il concetto di «bello» e attribuirlo soltanto al gusto e al livello dei singoli individui sono un'altra delle stupide banalità e semplificazioni, comunemente accettate.
È assolutamente vero che una definizione di bellezza, sufficientemente chiara, semplice e inequivocabile, probabilmente non è facile da trovare, sebbene l'argomento abbia riempito intere biblioteche. I concetti che meglio caratterizzano la bellezza, dai tempi dei filosofi greci, sono la simmetria e l'armonia, che meriterebbero a loro volta definizioni appropriate.

È altrettanto vero, che se gli attributi bello e brutto non fossero comprensibili, non ci sarebbe più nessuna possibilità di comunicare tra umani. È continuamente necessario spiegare e raccontare

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ad altri di situazioni, luoghi, cose o persone che possono essere descritti soltanto se i termini bello o brutto sono comprensibili agli interlocutori.
Che poi vi siano capacità e sensibilità diverse nell'interpretare la bellezza è incontestabilmente vero, ma non relativizza minimamente la validità dei concetti di bello o brutto, in senso assoluto.

È utile stabilire, che la bellezza non è un requisito indispensabile per caratterizzare l'arte, la quale può rimanere tale anche senza simmetria o armonia. Da qui nasce probabilmente la necessità di differenziare, dall'insieme delle possibili espressioni artistiche, le belle arti.
L'arte è l'espressione e il prodotto della genialità, della creatività, della fantasia, della sensibilità, della forza con la quale si percepiscono le cose e le situazioni, e soprattutto della capacità e dell'abilità che si hanno per realizzare le opere d'arte.

L'architettura e il design invece non possono prescindere da valori estetici, senza i quali diventano soltanto «brutta architettura» o «non design». Compito principale dell'architettura e anche del design è quello di risolvere i problemi posti all'oggetto o all'edificio o all'opera architettonica in generale. Il valore del manufatto è tanto più alto, quanti più problemi vengono risolti da chi l'ha progettato, nel rispetto dei canoni estetici di simmetria e armonia delle forme. Naturalmente ogni oggetto ha una sua valenza estetica anche in rapporto all'ambiente, vale a dire a tutto quello che gli sta attorno.

I piani regolatori avrebbero dovuto essere lo strumento per evitare lo scempio e lo spreco del territorio, ma in realtà non hanno saputo tener minimamente conto di valori estetici, limitandosi a formulare soltanto regole sulle distanze, sulle altezze, sugli indici ecc. Il risultato è talmente controproducente da chiedersi se le meraviglie del passato, certi nuclei storici, certe cattedrali, certi castelli medievali, certe residenze straordinarie ecc. sarebbero potute esistere se ci fossero sempre stati i piani regolatori.
In un mondo totalmente edificato, tutto quello che si vede in continuazione è soltanto il risultato di questo abbrutimento del territorio, reso ancora più osceno dalla decorazione, affidata di solito ad incompetenti, che scelgono i colori, le insegne, i giardinetti delle rotonde, le recinzioni, gli addobbi di natale, che allestiscono le vetrine, che organizzano i mercatini, le feste popolari o le manifestazioni in piazza.

L'etica non può fare a meno dell'estetica, se per etica si intende un comportamento finalizzato alla convivenza tra gli individui. Con un comportamento etico, si tiene conto delle esigenze primarie che gli esseri viventi hanno e tra queste non si può sottovalutare la necessità fisiologica della bellezza.
Se la politica non si preoccupa degli aspetti estetici delle proprie decisioni o delle proprie trascuratezze, il risultato è quello di abbruttire il mondo e quindi anche gli individui.
Purtroppo la mancanza di sensibilità estetica produce una gran confusione su cosa è bello e cosa è brutto. Alla bruttezza non ci si abitua, semplicemente si diventa insensibili e incapaci di produrre bellezza.
La bellezza, per essere capita e apprezzata, ha bisogno di cultura (conoscenza, tradizione) e di educazione (buone maniere).
L'ignoranza, l'abolizione delle regole del galateo, delle forme di cortesia, producono maleducazione e volgarità, che facilmente diventano anche violenza, vandalismo e delinquenza.
La politica grossolana, l'incapacità di discutere oggettivamente, la mancanza di rispetto per le persone, le aggressioni verbali violente, la poca padronanza del linguaggio sono i migliori presupposti per ridurre la sensibilità estetica e per trascurare completamente il valore di comportamenti etici, senza i quali non si produce cultura e bellezza.
Il risultato è che, invece di progredire e di abbellire il mondo, si continua soltanto a far riferimento a moralismi di varia provenienza, ritenendo che siano quelli i valori da difendere.

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Ci si illude di essere utili, ripetendo frasi fatte su auspicabili comportamenti ecologici e non si vede che il territorio è sempre più disordinato e trascurato. Le opinioni espresse sono sempre influenzate soltanto dagli avvenimenti più recenti. Si pretende di essere amanti della natura e non ci si rende conto che l'inquinamento più grave lo si trova in campagna, provocato dall'agricoltura, dalla pesca e dagli utilizzatori dei luoghi incontaminati. Si vogliono difendere i valori della famiglia e ci si dimentica del fatto che i problemi principali del mondo e dell'inquinamento dipendono essenzialmente dal continuo aumento della popolazione umana. Ci si oppone in tutti i modi all'eutanasia e alla libertà delle persone di scegliere il momento e il luogo in cui morire e non ci si preoccupa delle condizioni di vita della maggior parte dei vecchi. Si difendono gli stati e le sovranità nazionali, come se fossero strutture intoccabili, anche quando sottostanno ai peggiori regimi dittatoriali, che di solito sono anche maestri di abbrutimento e inquinamento.

Una delle più evidenti e visibili prove della mancanza di sensibilità estetica, ovvero di rispetto per il territorio, è la quantità e la durata dei cantieri, soprattutto di quelli gestiti da enti pubblici. Sembra impossibile che nessuno si preoccupi del fatto che il paesaggio, anche quello più pregevole, sia continuamente deturpato dal disordine provocato dai lavori in corso. Il peggio però è vedere come i lavori siano fatti sempre a comparti e in realtà non abbiano minimamente la funzione di abbellire o riabbellire le strutture (o il territorio), ma soltanto di sostituire i tubi o di mettere i ripari fonici, senza approfittarne per sostituire anche le recinzioni arrugginite e mezze demolite o per riasfaltare la strada invece di rattopparla.

Sembra quasi che la funzione principale dei lavori pubblici sia, per i politici, la soddisfazione e l'importanza che può dare la distribuzione di appalti e, per le ditte, la riserva di lavoro che si accaparrano e che potrà poi essere eseguito quando non c'è nient'altro di urgente da fare. Il risultato è la durata interminabile per lavori che potrebbero essere fatti in molto meno tempo e soprattutto in combinazione con altri lavori, che eviterebbero di riaprire dopo poco nuovi cantieri nel medesimo posto.

Vivere tra i cantieri è come vivere nelle baraccopoli, cioè nella provvisorietà, nella precarietà e nella bruttezza, che certamente non educa alla sensibilità estetica o al rispetto del territorio. La conseguenza è un ulteriore degrado, dovuto alla noncuranza e alla mancanza di riferimenti. Dove per anni c'è stato un cantiere polveroso, rumoroso, disordinato, che ha deturpato il paesaggio, magari con WC provvisori, con silos per il cemento, con depositi di materiali, con ingombro per la percorribilità pedonale o motorizzata, diventa difficile pretendere da tutti, che, a lavori finalmente ultimati, vi sia un gran rispetto per il medesimo luogo.

Anche se la questione può apparire secondaria di fronte ai problemi del mondo, si tratta pur sempre di un degrado ambientale ed estetico, che diventa sempre più importante, poiché i cantieri aperti continuano ad aumentare. Sembra quasi che i manufatti durino sempre meno e abbiano un continuo bisogno di essere rifatti.
Credere che il problema sia irrisolvibile, indica soltanto che non si è mai pensato di affrontarlo da un punto di vista estetico, probabilmente perché la provvisorietà, anche se dura decenni, è comunemente accettata come una parte strutturale della vita. In realtà, da un punto di vista religioso, la vita stessa ha carattere di provvisorietà. Il bello verrà dopo.
Per chi invece è assolutamente consapevole del fatto che la vita è una sola, irripetibile e con una durata molto limitata, la provvisorietà diventa un problema molto più importante, che dà l'idea di uno spreco del tempo disponibile. Vivere sempre in funzione del «dopo», significa rassegnazione, che è il migliore presupposto per accettare la sottomissione, l'ingiustizia e tutti i disagi e le brutture.

Organizzare politicamente un sistema democratico di convivenza pacifica, in cui il minimo indispensabile sia garantito per tutti, non è certo una cosa facile e richiede continui adattamenti

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e il contributo di tutti. La massima attenzione va costantemente rivolta al pericolo rappresentato dagli approfittatori, che a tutti i livelli riescono a destabilizzare il sistema.
Purtroppo l'interesse a mettersi in politica è quasi sempre un interesse pratico e individuale, e raramente un interesse pubblico e ideologico. Questo è talmente vero da lasciare sempre forti dubbi sulle promesse elettorali e sulla totale trasparenza dell'attività dei politici.
La democrazia però, malgrado i suoi limiti, è anche la possibilità di riconsiderare periodicamente le proprie scelte, cercando di non farsi influenzare soltanto dal carisma dei candidati, ma piuttosto dalle loro competenze e dai risultati ottenuti.
La libertà di informazione e di critica, una giustizia indipendente e soprattutto l'interesse dei cittadini per le questioni politiche, non soltanto quelle del proprio territorio, sono l'unico modo per impedire in tempo qualsiasi possibile sopruso da parte degli eletti e la premessa per continuare a rafforzare la democrazia.

L'alternanza è una caratteristica dei sistemi democratici, e ciò che viene premiato o punito dagli elettori non è certo l'ideologia dei partiti, ma i risultati pratici ottenuti dagli eletti, l'impegno che hanno messo e i privilegi che si sono presi durante il loro mandato. Le ideologie hanno effetti soltanto a lunga scadenza.
Peccato che i partiti liberali, anche dove hanno avuto per decenni posizioni di maggioranza, non abbiano saputo produrre apertura mentale e istaurare una reale cultura liberale. Al contrario, si sono sempre adeguati alla morale vigente e alla libertà condizionata.

Pochi sono i luoghi del mondo, in cui si percepisce il diritto alla vera libertà individuale, il rispetto per le minoranze, la tolleranza e la convivenza pacifica di diversità culturali, etniche e religiose: soltanto le grandi città mitteleuropee, i paesi scandinavi e l'Olanda, alcune metropoli nord americane, australiane o giapponesi e, per assurdo, Tel Aviv si possono considerare luoghi veramente aperti.
Altrove la libertà o è totalmente inesistente, o al massimo è apparente e riguarda soltanto alcuni privilegiati che, per opportunismo economico, non sono obbligati a rispettare le leggi, i proibizionismi e i moralismi in vigore.

In definitiva sono state soltanto le socialdemocrazie a saper diffondere la cultura liberale. I partiti liberali invece si sono limitati a difendere la libera economia di mercato, trascurando tutte le altre libertà e soprattutto preferendo la chiusura a sostegno dei privilegi. La conseguenza è che il malcontento dei votanti liberali premia chi vorrebbe chiudere ancora di più, poiché soltanto la chiusura viene recepita come protezione e difesa dei propri vantaggi.
Naturalmente l'alternanza riguarda anche le socialdemocrazie e il malcontento provocato da crisi economiche, indebitamento dello stato, scandali politici o di corruzione, viene sanzionato con spostamenti dell'elettorato a volte addirittura verso partiti dichiaratamente xenofobi. La cultura liberale però limita, di solito, nel tempo e nelle percentuali questi fenomeni di estremismo.

Le radici storiche dei partiti liberali, individuate in genere nella massoneria inglese o nella carboneria italiana o francese e, per la variante più aperta, nella rivoluzione francese, si rifanno tutte al desiderio di liberarsi dal dominio dell'aristocrazia e del clero. La mancanza di apertura però deriva proprio dall'attaccamento alle associazioni segrete o quantomeno discrete ed esclusive, chiuse ed elitarie, i cui addetti non hanno mai avuto l'intenzione di liberalizzare, ma di liberarsi dal dominio del vecchio regime per prenderne il posto.

Certamente con le interpretazioni storiche si può dimostrare quasi tutto, ma basta vedere la realtà nelle società liberali di oggi e individuare le strutture che contano realmente: il predominio dell'economia o della finanza, i segreti bancari, i consigli d'amministrazione, i club, le logge massoniche, le associazioni professionali e tutte le altre forme di associazionismo anche quelle con scopi ufficialmente culturali o di beneficenza contribuiscono sempre a dare privilegi e protezioni ai propri soci.

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Grande importanza, anche economica, hanno i club sportivi che emozionano e condizionano le masse, che sono il simbolo stesso delle chiusure regionaliste e in certi casi diventano addirittura il riferimento di partiti o di correnti politiche.
Il fanatismo dei tifosi non è altro che una religione, al vertice della quale stanno i giocatori e i dirigenti, che diventano eroi e, dai tempi della mitologia greca, gli eroi sono quasi divinità, in nome dei quali è giustificata anche la guerra o la guerriglia urbana.
La tifoseria però rappresenta sempre un'importante base elettorale, relativamente facile da conquistare, attraverso il sostegno convinto della squadra locale.

Evidentemente nessuno può negare che dall'economia dipenda il benessere delle popolazioni e che la finanza e le banche servano a farla funzionare. È però intellettualmente legittimo porsi anche qualche domanda e non considerare l'economia come la religione di riferimento del liberalismo. Il dubbio principale sorge sui principi fondamentali del capitalismo: la competizione e la crescita economica e demografica.
La competizione dovrebbe essere il regolatore automatico dei prezzi ed evitare l'arricchimento sproporzionato degli approfittatori di situazioni di monopolio. In realtà gli accordi tra gli offerenti, il proibizionismo, l'obbligatorietà di certi interventi, i sussidi pubblici, i permessi speciali e, soprattutto, le associazioni fanno sì che in moltissimi casi la competizione sia soltanto teorica.
Purtroppo dell'economia fanno parte le attività lecite e anche quelle illecite, le attività utili e quelle completamente inutili, le attività che fanno progredire e anche quelle che fanno arretrare il progresso, le attività pacifiche e quelle belliche.
La crescita economica è il parametro di tutti i giudizi sull'attività umana. Il PIL viene distribuito statisticamente sul numero di abitanti di una regione, mentre, in realtà, è quasi sempre concentrato nelle mani di pochi e spesso nelle mani dei governanti.

Un sistema economico come quello attuale non può essere il traguardo finale del progresso umano e la crescita non può logicamente o matematicamente continuare all'infinito, in uno spazio finito. La condizione prevista per far crescere l'economia e per finanziare le istituzioni sociali è soltanto la crescita demografica, malgrado sia proprio questa la causa principale di tutti i problemi ecologici del pianeta.

Troppo spesso ci si dimentica che la popolazione mondiale si è più che quadruplicata dall'inizio del 1900 (1,6 miliardi) ad oggi (7 miliardi) e che ai tempi dell'antica Roma, con tutte le civiltà che già erano passate sulla terra fino a quel momento, con tutta la conoscenza che già si era acquisita, con l'arte, l'architettura, la filosofia e la democrazia che già si erano prodotte, non c'erano probabilmente più di 200 milioni di abitanti in tutto il pianeta.
Quale progresso dovrebbe produrre una massa di umani, come quella attuale, se si trattasse di umani pensanti?
In realtà, più che di umani pensanti, si tratta di umani inquinanti. Il CO2 (o anidride carbonica) non lo producono soltanto le automobili, ma anche tutti i mammiferi, gli uccelli, i rettili e gli insetti, e se per mantenere ogni umano si allevasse anche una mezza mucca, un maiale o una pecora, qualche gallina ecc., l'emissione di CO2 più importante proverrebbe certamente dall'esplosione demografica degli umani. A tutto questo va sommata la deforestazione, per far posto agli allevamenti, alle coltivazioni o, come in Canada, all'estrazione di petrolio, malgrado siano proprio le piante i più efficienti trasformatori di anidride carbonica in ossigeno.

Quando poi si sentono certi politici parlare della «drammatica diminuzione delle nascite» c'è da chiedersi se la politica (incluso quella dei verdi) abbia veramente capito il problema.
Se si considera qual è e quale è stato il peggiore inquinamento della nostra epoca, si deve per forza ammettere che è quello prodotto dai regimi comunisti nell'ex Unione Sovietica e in Cina. Inquinamento che continua ancora oggi, grazie agli stessi governanti riciclati e con il contributo dell'industria petrolifera.

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Dal «Grande balzo in avanti» cinese, che oltre a causare milioni di morti di fame tra gli umani, ha provocato anche la quasi estinzione degli uccelli, uccisi perché l'intuito geniale di Mao aveva individuato in loro la principale causa dei problemi degli agricoltori, siccome beccano i semi appena seminati, al quasi prosciugamento del lago Aral (uno dei più grandi del mondo), per bagnare le piantagioni di cotone previste dalla saggezza dei dirigenti sovietici, c'è una buona metà del pianeta, dalla Siberia all'Ucraina, che è quasi stata distrutta dall'incuranza assoluta per i problemi ambientali dell'ideologia comunista.

Sembra paradossale che la stessa sinistra che negli anni Settanta prendeva a modello i regimi comunisti e inneggiava a Mao Tze Tung e a Ho Chi Minh debba considerarsi oggi esperta di ecologia e distribuire, insieme ai verdi, ricette su come ci si deve comportare per salvare il pianeta: prendere il tram, riscaldare la casa con la legna, tagliare l'erba con la benzina verde o, peggio ancora, non bruciare i rifiuti e non costruire strade.
Intanto il mondo è sempre meno curato e anche luoghi che fino a qualche anno fa venivano considerati esempi di ordine e pulizia, oggi sono sporchi, disordinati, maltrattati e pieni di rifiuti abbandonati e di brutti graffiti.

L'incoerenza di certi atteggiamenti dovrebbe far sorgere qualche dubbio sulla credibilità di alcuni, ma in realtà, quello che conta è di saper cavalcare l'onda ed esprimere con enfasi e convinzione tutte le banalità che l'attualità richiede, per essere acclamati dal popolo.

Le soluzioni progettuali, che riguardano l'utilizzo razionale, intelligente ed esteticamente valido del territorio e delle sue risorse, impiegano decenni e a volte secoli per maturare, e le decisioni politiche vengono prese quasi sempre soltanto quando ci sono interessi particolari da favorire.

I luoghi più belli che potrebbero essere di utilizzo pubblico sono lasciati abbandonati e incurati per decenni, mentre si pianifica, si progetta, si consultano esperti e specialisti, si fanno fare misurazioni e analisi, valutazioni tecniche ed economiche e si spendono milioni prima di osare decidere qualcosa. Oppure ci si accorge che il treno, che passa da centoquarant'anni, o le autostrade, che passano da quarant'anni nei paesaggi più idilliaci, provocano anche rumore (che probabilmente nessuno aveva previsto), oltre ad aver deturpato l'ambiente. Quindi, per risolvere il problema, i responsabili politici del territorio fanno costruire muraglioni che devastando definitivamente il paesaggio, applicandovi sopra qualche pannello solare, a testimonianza della loro sensibilità ecologica.

Della pericolosità delle centrali nucleari ci si rende conto soltanto, quando ne scoppia una e, con grande coraggio politico, si decide di chiuderle tutte per accattivarsi le simpatie dell'elettorato impaurito. Che forse meriterebbero qualche attenzione rinnovata anche le dighe di cemento, vecchie di sessant'anni, verrà in mente soltanto dopo il prossimo terremoto alpino. Non si capisce perché i ponti di cemento armato delle autostrade devono essere tutti rifatti, a causa del cancro del cemento, mentre le dighe dovrebbero durare in eterno, in un paesaggio alpino, con sbalzi di temperatura e continui scoscendimenti. I rischi di incidenti nella produzione di energia idroelettrica probabilmente non sono inferiori a quelli che pongono i reattori nucleari e le devastazioni possibili forse addirittura maggiori.

La coerenza non sembra più essere considerata un valore dai politici. Anzi, si ritiene molto più importante il saper cambiare idea, senza preoccuparsi minimamente della credibilità, poiché anche gli elettori cambiano idea e si scordano presto delle promesse e delle affermazioni del passato. Nell'era della comunicazione è più utile essere «alla mano» e affermare in continuazione le più classiche ovvietà e banalità, prevedibili e comprensibili da tutti: «Il campanile al centro del villaggio», «il fiore all'occhiello» o i vari «sbarchi» di cui raccontano i giornalisti e tutte le altre frasi fatte che, come dire, diventano man mano di moda, magari con la

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presunzione di dare un tocco più raffinato al discorso. Banali sono spesso anche i contenuti delle affermazioni dei politici che se ne vantano perché sanno farsi capire dal popolo.
Per un libero pensatore, le cinque cose più odiose che esistono sono, nell'ordine:
La religione, il militare, la violenza, la stupidità e la banalità.

Ovviamente non basta l'elenco delle cose negative o la critica continua ai politici, come se fossero tutti uguali e facessero tutti parte di un unico sistema (o complotto).
Per progredire, una società ha bisogno di almeno qualche valore positivo a cui fare riferimento:
La libertà di pensiero, di azione, di scelte di vita, nel rispetto degli altri.
Il senso del dovere, dell'etica e dell'estetica.
La democrazia con regole chiare in cui le responsabilità governative o amministrative sono a tempo determinato e i privilegi sono limitati al necessario per svolgere degnamente le funzioni per le quali si è stati eletti.
L'accettazione della pluralità delle ideologie, dei partiti e delle opinioni altrui e il piacere alla discussione.
La consapevolezza che il progresso (la migliore qualità di vita) dipende essenzialmente dalla scienza, dalla conoscenza, dalla cultura, oltre che dalla protezione dell'ambiente e del territorio.

La difesa di questi valori, non soltanto nei propri paesi sviluppati e democratici, ma soprattutto laddove ancora oggi le popolazioni sono povere e non godono di nessuna libertà, dovrebbe essere l'impegno più importante della politica dei paesi ricchi. Invece «gli altri paesi» interessano soltanto come clienti, come luoghi attrattivi per il basso costo della mano d'opera o come paradisi per vacanze a buon mercato. Ciò che viene fatto è sempre solo dell'assistenzialismo condizionato, per allargare la propria sfera d'influenza, per diffondere la propria religione o per impedire la diffusione della religione altrui. La conseguenza è il sostegno alle dittature, la vendita di armi, le guerre e tutte le altre atrocità.

Malgrado tutto ciò si deve pure ammettere che il progresso, per lento che sia e pieno di ricadute verso l'oscurantismo, continua e che gli umani vivono meglio oggi che in ogni altra epoca precedente. Purtroppo non tutti e non dappertutto. Ancora oggi non si è in grado di limitare il potere di personaggi che, da soli, riescono a sottomettere per decenni nazioni intere e che se ne vanno solo dopo avere distrutto tutto e ucciso migliaia di persone. A volte è necessario ammazzarli per liberarsene. Quello che resta è il popolo abbruttito dalla sottomissione, assolutamente incapace di strutturare la convivenza democratica senza rifarsi a moralismi religiosi, unica regola di comportamento che conoscono, spesso creando nuovi conflitti con gli appartenenti ad altre sette presenti nel paese.

È assolutamente evidente e sotto gli occhi di tutti, che ancora oggi i conflitti più difficili da risolvere sono quelli che dipendono dal fanatismo religioso. Sembra assurdo che nessuno ammetta apertamente quanto danno provoca la religione nel mondo. Tutti sanno solo criticare la religione altrui e tutti pensano che quello che fanno in nome della propria religione sia giusto e santo, anche se ne va di mezzo un'infinità di gente.
Nessun politico, nessuno scienziato, nessuna persona di cultura osa dire che la religione è la peggiore invenzione dell'umanità.

I sostenitori invece sono convinti che la religione sia ciò che da un significato alla vita e che una vita senza religione non abbia senso. Forse perché si aspettano un premio alla fine di una vita sacrificata e repressa dalla stessa religione.

L'ateo invece si pone delle domande e si chiede per esempio di quale premio si tratta?
Di un paradiso cristiano a cui accedono, dopo la morte, le anime buone? Naturalmente solo quelle umane, poiché solo gli umani possiedono un'anima.

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Ma l'anima e il defunto sono la stessa cosa? Un individuo è tale se possiede un corpo e un cervello che si modifica nel tempo, per cui l'individuo si modifica con gli anni!
Quindi, se un umano buono muore a 95 anni, affetto da demenza senile, avrà come premio una vita eterna da «vecchio rincretinito»?
Se invece l'anima e l'individuo non fossero la stessa cosa, allora il premio lo riceverebbe qualcun altro?

Se poi ci si aspetta un'eternità felice, fatta soltanto della gioia e del piacere di essere alla presenza di dio, in cui non ci sono più problemi da risolvere, stimoli intellettuali o fisici e non ci sono più né affetto, né interesse per i propri simili, dove non ci si può attendere più nulla di diverso, e dove non c'è più nient'altro da fare, ebbene, per qualsiasi umano, quest'idea di eternità appare insopportabile e più che a un premio assomiglia a una punizione tremenda.

Occorre poi tutta la fantasia più perversa per immaginare un inferno inappellabile, dove si dovrebbero soffrire pene tremende per tutta l'eternità, e un buon dio che ha inventato un sistema del genere, creando degli umani destinati a un'eternità terribile!
Chi crede a questa possibilità è certamente disposto ad accettare, in nome di dio e della morale religiosa, anche le torture e la pena di morte (per i peccatori).

O forse hanno ragione quegli altri (non poi così pochi), che credono che si continua a ricominciare da capo, prima di raggiungere la saggezza e finalmente finire nel nulla.
A loro però si potrebbe chiedere come hanno fatto gli umani ad aumentare così tanto di numero, se sono sempre gli stessi a ritornare e se tutti hanno avuto una vita precedente? Matematicamente qualcosa non funziona.
Per non parlare poi del concetto di «individuo», che va definito e descritto come un'entità propria.
Una montagna, una pianta, una foglia o un corallo non sono individui, poiché non hanno un cervello, che dà loro una personalità finita. Un individuo è tale se possiede un proprio corpo, chiaramente delimitato con un proprio cervello.
Come si può pretendere di essere stati, in passato una principessa egizia, un cavaliere templare o magari un delfino, ma in ogni caso sempre lo stesso individuo?

D'altra parte, se anche tutte queste sciocchezze fossero vere, la domanda fondamentale rimane assolutamente la medesima: che senso ha?
La religione non dà nessuna risposta in più. Era forse necessario costruire un universo di tali dimensioni, fatto di miliardi di galassie, ognuna con milioni o addirittura miliardi di stelle (probabilmente con sistemi planetari), impiegando miliardi di anni, solo per far entrare in paradiso alcune anime di umani, costruiti con la sabbia seimila anni fa?
Non c'è nessun senso e nessuna logica. Infatti, i veri credenti negano tutto quello che la scienza, con tanta fatica, è riuscita a scoprire e a dimostrare.

Nessuna delle credenze religiose di oggi è compatibile con quanto si sa della storia dell'evoluzione del pianeta Terra, con la lenta formazione dei continenti, delle catene montuose, dei vulcani, dei mari, dei laghi, dei fiumi, della vegetazione, degli animali che hanno colonizzato il mondo e poi sono di nuovo spariti, lasciando per fortuna le tracce della loro esistenza e soprattutto dei numerosi cambiamenti climatici. Una storia di cui si continua a saperne sempre di più, riuscendo anche a datare sempre meglio le varie fasi dell'evoluzione, per scoprire che ci sono voluti miliardi di anni prima che apparissero sulla terra le prime forme di vita e altre centinaia di milioni di anni prima di arrivare a forme di vita strutturate come individui, con un loro proprio cervello, in grado di produrre ragionamenti finalizzati a decisioni e azioni individuali.

Di fronte a queste conoscenze il monoteismo biblico (talmudico o coranico) non appare più credibile del paganesimo politeista, passato o presente.

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Il fanatismo degli ebrei ortodossi e ultraortodossi, degli integralisti islamici o delle gerarchie ecclesiastiche dei cristiani sono le ideologie che governano ancora nel ventunesimo secolo la gran parte dell'umanità, nell'odio e nel disprezzo degli altri, perché nessun governante può permettersi di andare contro la religione dominante del proprio paese, a meno di non essere dittatori capaci di reprimere il popolo e sostituirsi personalmente all'onnipotente.
Se si aggiunge anche l'ideologia comunista, strutturata esattamente come una religione, in cui non sono ammesse discussioni o dissidenti e dove i capi sono eletti dalle loro proprie gerarchie, esattamente come fanno i cattolici, la quasi totalità del mondo è governata soltanto dalla religione.
Nei paesi laici i politici atei, senza l'aiuto delle associazioni segrete, hanno pochissime possibilità di arrivare ai vertici del potere. Molto meglio, per essere eletti, è di terminare tutti i discorsi con la commovente frase: «Che dio vi benedica tutti».

Essere contro la religione significa mettersi contro il popolo e quindi automaticamente essere in minoranza.
Far parte di una religione, che non sia quella della maggioranza del luogo, è rischioso e a volte anche pericoloso.
Prevalgono dappertutto gli opportunisti del «politicamente corretto», che non sono contrari a nulla e non negano nulla, pur di avere il consenso dei sostenitori, anche quando sono assolutamente convinti della sciocchezza totale della religione. Col loro atteggiamento contribuiscono al mantenimento delle mentalità retrograde, le quali però sono meglio predisposte ad accettare sacrifici e sottomissioni in nome della morale religiosa.
I liberi pensatori hanno troppi dubbi, fanno troppe domande, vogliono apertura e chiarezza, vogliono sapere chi è collegato a chi, chi guadagna troppo, chi corrompe e chi è corrotto e perché si fanno certe cose in un certo modo.
I liberi pensatori non si accontentano della fiducia incondizionata, di dover credere e accettare senza approfondire e sono sempre più difficili da gestire o da manipolare di quanto non lo siano le persone di fede.
I credenti sono molto più malleabili e facili da convincere e molto più disposti a sottomettersi ai propri capi, a cui si ribellano soltanto se i loro ideali e i loro privilegi, derivanti da convinzioni chiuse e settarie, sono messi in pericolo, a condizione però che trovino un nuovo condottiero abbastanza forte da difendere i loro presunti vantaggi.

Essere contro la religione non è un atteggiamento negativo, ma è il desiderio di liberare le menti umane, di lasciarle dubitare, di stimolarle a pensare, di motivarle a non accettare qualsiasi cosa.
Soltanto chi è libero da pregiudizi morali (religiosi), può ragionare in maniera razionale e non pretende di imporre agli altri i propri moralismi. La consapevolezza che il bene e il male non sono valori assoluti, ma soltanto valori morali, che si riferiscono sempre a principi religiosi, permette di valutare oggettivamente i comportamenti e gli atteggiamenti, in funzione della loro utilità pratica per una migliore convivenza. E la convivenza non è un valore, ma una necessità.

Ritenere che la convivenza sia possibile soltanto nei piccoli gruppi di individui con la medesima lingua, la medesima religione, la medesima mentalità, lo stesso aspetto fisico e che provengano da una storia comune, non è solo segno di limitatezza, ma anche di assoluto anacronismo.
Appena gli umani ne hanno la possibilità, vogliono conoscere altri luoghi, altra gente, altri modi di vivere e si rendono conto che ogni viaggio è un arricchimento, un'apertura, un aumento di cultura. Il fatto che non si sia mai viaggiato così tanto non dipende certo da un innato desiderio di chiusura, ma dal piacere di conoscere il mondo e i suoi abitanti.
I muri, le barriere, i confini, le chiusure, le differenze, le lingue, sono soltanto ostacoli inutili che impediscono agli umani di impiegare la loro vita (limitata) per conoscere quello che sarebbe possibile conoscere. Chiaramente anche le lingue diverse contribuiscono a non far capire gli altri e a considerarli strani (stranieri) e diversi.

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Molti che si ritengono colti, illuminati e progressisti fanno ancora oggi di tutto per rallentare l'impiego di una lingua universale che permetterebbe a tutti di capire tutti.
L'idea che le lingue e le nazioni siano valori intoccabili, non ha nulla a che fare con la realtà storica. Le nazioni sono strutture (per lo più napoleoniche) realizzate nell'Ottocento e che derivano da storie antiche e dall'unione di territori collocati in aree geograficamente delimitabili.
Le nazioni hanno poi dovuto creare monete nazionali e unificare in lingue nazionali una quantità di dialetti locali, in molti casi obbligando le minoranze ad apprendere una lingua completamente diversa da quella che parlavano nella loro regione (ad esempio il basco, il bretone, il gallese o altre lingue celtiche in centro Europa o quelle indigene in America).
Oggi le nazioni, le monete e le lingue sembrano diventate strutture immodificabili. Ogni cambiamento viene condannato come un attacco alle sovranità nazionali. La moneta europea, che ha prodotto così tanti vantaggi, viene accusata di essere la causa di crisi economiche nazionali in paesi che spesso sono vittime dei loro propri sistemi e dei loro tipici problemi irrisolti: mafia, corruzione, sprechi ed evasione fiscale. Non si capisce come qualcuno ritenga di poter risolvere le crisi attraverso l'inflazione di una ripristinata moneta nazionale.
Purtroppo però nessuno immagina ancora una vera moneta unica, che eliminerebbe tutti i problemi legati al cambio delle valute, e che darebbe ai beni e alle prestazioni di servizio un valore reale e universale, non dipendente dalle inflazioni prodotte nei vari stati.
Già oggi, la maggior parte degli scambi internazionali avviene in dollari e un bel giorno qualcuno dovrà prendere seriamente in considerazione una moneta mondiale.

I tentativi di inventare una lingua universale (esperanto) da imporre a tutti non sono mai riusciti, probabilmente perché il fenomeno linguistico è uno dei più spontanei e mutevoli. Voler proteggere a tutti i costi lingue nazionali che sono state decretate e messe insieme da una serie di linguaggi regionali, in concomitanza con la creazione delle nazioni, e che si sono evolute e modificate continuamente, non fa altro che impedire agli umani di comunicare tra loro.
Molto più utile e più pratico sarebbe insegnare a tutti, già nelle scuole primarie, una lingua mondiale che allo stato attuale non può più essere scelta tra molte, ma che forzatamente dovrebbe essere l'inglese. Ormai in tutti i luoghi del mondo ci si intende soltanto coll'inglese, con lo svantaggio che per molti è la terza, la quarta o la quinta lingua e forse quella che conoscono meno. Esiste oggi un fenomeno mondiale di comprensione parziale, dovuto alla conoscenza limitata dell'inglese da parte di molti, che l'hanno imparato solo in età adulta e soltanto in funzione del loro lavoro, per cui conoscono i vocaboli più usati per i loro affari, ma non sono in grado di tenere una conversazione su temi diversi (o magari astratti).

Non si può immaginare di imporre agli umani l'apprendimento di troppe lingue e si dovrebbe tenere conto del fatto che, spontaneamente tutti parlano almeno in due modi diversi: in primo luogo nella lingua dei propri affetti e in secondo luogo nella lingua con cui si comunica all'esterno e che normalmente è la lingua principale scolastica. L'apprendimento di altre lingue richiede invece uno sforzo notevole che nella maggior parte dei casi permette soltanto di parlarle malissimo e con un forte accento. In paesi che si vantano di avere tre lingue nazionali, in realtà non c'è quasi nessuno che le conosca perfettamente tutte tre, nemmeno i governanti più importanti. Pretendere di imporre la lingua di Dante, di Goethe o di Molière, a discapito di una lingua utile per comunicare con tutti, serve solo a rinviare ancora di qualche anno la soluzione di problemi enormi. Se si immagina quanto tempo e quante energie sono costretti a investire oggi gli umani soltanto per le traduzioni (scritte, simultanee o per i doppiaggi), ci si rende conto che si potrebbero risparmiare miliardi, se tutti sapessero bene l'inglese, senza togliere nulla a nessuno.

I progressi dell'umanità dipendono soltanto dalla razionalizzazione e il migliore modo per razionalizzare il lavoro è quello di non doverlo più fare. Il benessere relativo che il mondo conosce oggi, per lo meno in alcuni luoghi previlegiati, dipende in massima parte dagli effetti della razionalizzazione. Il basso costo della mano d'opera è soltanto un ostacolo alla razionalizzazione, perché la rende superflua.

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La rivoluzione industriale, la produzione razionale di beni, l'impiego di energie diverse dalla forza fisica, la velocità di percorrenza delle distanze dipendono dalle scoperte dell'intelligenza umana e permettono di disporre di una maggiore quantità di tempo libero.

La disorganizzazione però fa sì che il tempo libero sia mal distribuito e produca quale effetto secondario la disoccupazione. Si tratta in realtà di un fenomeno che non tocca nessuna altra specie di esseri viventi. Tutti in natura hanno qualcosa da fare, perché tutti devono procurarsi del cibo, costruire il proprio alloggio o nido, allevare e nutrire la prole, conquistare il proprio ruolo nel gruppo o sul territorio.

Gli umani invece hanno inventato moltissimi lavori accessori e razionalizzato quasi tutti i lavori manuali o ripetitivi. Tutto ciò dovrebbe produrre benessere per tutti, invece si traduce in un problema per molti, poiché pochi ne accumulano tutti i vantaggi escludendo dal progresso coloro che non hanno imparato in tempo un mestiere utile.

I grandi temi che gli umani dovranno per forza affrontare e risolvere sono essenzialmente legati all'organizzazione della società, alla riduzione delle disuguaglianze, all'impiego intelligente del tempo, al finanziamento delle istituzioni sociali, non tanto con l'aumento dei contributi, ma con nuove misure di eliminazione degli sprechi e tra questi: l'eliminazione degli eserciti, con tutti gli armamenti, l'introduzione di una lingua unica (senza vietare a nessuno di parlare anche la propria lingua, ma permettendo a tutti di conoscere la lingua della comunicazione), l'introduzione di una moneta unica, il ridimensionamento dell'importanza degli stati nazionali (con tutte le ambasciate, i consolati, le varie camere di commercio) e soprattutto l'abolizione della religione e dei costi e dei disastri che provoca nel mondo.

Con queste piccole e semplici misure, che non modificherebbero negativamente la vita di nessuno, ci sarebbe una nuova disponibilità di migliaia di miliardi, da investire in benessere aumentato per tutti, premesso che gli umani non continuino a moltiplicarsi al ritmo di oggi, perché se lo faranno rischiano l'estinzione per sovraffollamento.

Utopie? Forse, ma non certo più stupide di quelle religiose o della difesa nazionale o della salvaguardia delle tradizioni culturali linguistiche, come se Dante o Goethe parlassero e scrivessero nell'italiano o nel tedesco di oggi, o come se un americano o un australiano non potessero leggere in inglese questi autori. Lo scopo principale del linguaggio è la possibilità di comunicare con gli altri. La cultura si può produrre in tutte le lingue, premesso che contengano i vocaboli necessari per descrivere gli oggetti, le situazioni e la conoscenza nelle società in cui vengono usate. Per molte lingue si è rinunciato da tempo a inventare nuovi vocaboli per gli attuali strumenti di uso comune e si utilizzano spontaneamente i vocaboli inglesi. Persino quando i vocaboli ci sarebbero si preferiscono le parole inglesi. Tanto vale parlare l'inglese, ma almeno in modo sufficiente per poter realmente comunicare e fare cultura.
I dialetti contengono bellissime parole che descrivono perfettamente gli oggetti e il modo di vivere dell'Ottocento ma non permettono più una comunicazione attuale, senza essere completamente snaturati. Lo stesso succederà spontaneamente con le lingue nazionali e, senza l'aiuto di una politica mondiale concordata, il processo durerà ancora a lungo e produrrà solo nuove categorie di privilegiati (che sanno bene l'inglese).

Sul disarmo si discute da decenni, ma, ogni volta che un presidente americano sta antipatico al presidente russo o cinese, si ricomincia a prepararsi alla guerra. Forse ci vorrebbero un po' meno presidenti o almeno presidenti che non durassero così a lungo. Ma più ancora sarebbe necessario delegare a un'istanza superiore tutta la questione e sviluppare un organo di controllo, assolutamente democratico, in grado di intervenire seriamente ogni volta che qualcuno tentasse di reprimere con le armi le fondamentali libertà e i diritti democratici dell'uomo.

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Nemmeno la democrazia, intesa sempre e soltanto come decisione della maggioranza, è un valore assoluto. Anche la maggioranza è in grado di prendere decisioni antidemocratiche, discriminatorie e perfino razziste, o di eleggere i dittatori.
Il vero problema è quello di riconoscere e di far accettare finalmente e dappertutto alcuni valori fondamentali, già contenuti nella Carta internazionale dei diritti dell'uomo, rimettendoli di nuovo al centro delle discussioni dell'ONU o dell'UE e non accontentandosi di sapere che la Carta esiste, anche se i suoi valori vengono ignorati o calpestati continuamente in gran parte del mondo.

Tutte queste sono riflessioni politiche, che non si limitano solo alle piccole problematiche locali, ma partono dall'inizio con lo stabilire valori di riferimento utili e necessari per migliorare la vita e l'organizzazione della società umana. Migliorare significa voler permettere a tutti di vivere dignitosamente, contrastare i soprusi, le guerre, le limitazioni della libertà, la corruzione, i disastri ambientali, la repressione religiosa e creare le condizioni per la convivenza di gruppi antagonisti.

La politica richiede consenso e il consenso viene dal sostegno di coloro che condividono gli stessi valori e che quindi ne fanno un partito. Il termine «partito» però ricorda piuttosto la frammentazione e la parte, che contrastano con valori di libertà, di apertura e di universalità. Ciò malgrado non si può pretendere che tutti la pensino allo stesso modo e uno dei principi fondamentali della democrazia e del liberalismo è quello di consentire e persino di difendere la pluralità delle idee e la libertà di esprimerle. Rimane la competizione onesta e democratica, per cercare di far passare un'ideologia di apertura.

Per reprimere la criminalità, la violenza, i furti o gli imbrogli negli stati democratici vengono impiegati magistrati, polizia, tribunali, strutture carcerarie o di recupero. Una parte del PIL viene destinata alla sicurezza regionale o nazionale.
Per reprimere le stesse cose, commesse in grande stile da governanti o rivoluzionari a livello mondiale, che provocano povertà, sterminio, paura e rifugiati, si fanno proclami televisivi dalla finestra del papa o si inviano di nascosto armamenti alla parte che si ritiene sia più vantaggioso sostenere.
Gli eserciti servono alla difesa nazionale o a tutelare altrove gli interessi nazionali.
I tribunali internazionali entrano in funzione solo quando le guerre sono finite e i massacri sono stati compiuti.

Non è possibile che un'umanità evoluta, intelligente, con conoscenze dettagliate di tutto quello che succede sul pianeta, non abbia ancora deciso di affrontare i veri problemi del mondo, ma continui ad avere soltanto visioni territorialmente limitate e ritenga che le nazioni siano piccoli mondi finiti al di fuori dei quali vi sono solo avversari e concorrenti. Le grandi battaglie politiche riguardano solo i privilegi da dare o da mantenere ai propri connazionali e possibilmente alla propria parte politica o religiosa.

Decisamente, ritenere che sia così facile risolvere tutti i problemi del mondo è assolutamente sciocco e addirittura idiota. Ma ce ne fosse almeno uno ogni tanto che dimostrasse di avere veramente delle idee aperte, non condizionate da strutture mentali limitate, da pregiudizi morali (religiosi) o dall'idea che un continente intero debba basare la propria costituzione su valori giudaico-cristiani, come se questo aiutasse a progredire.

Persino quando, raramente, ne appare uno nuovo, con idee più aperte e progressiste (che non sono certo qualità esclusive della sinistra socialista), e si candida addirittura alla presidenza di istituzioni sovranazionali come per esempio l'UE, ci si rende poi conto che, anche a quei livelli, serve solo il populismo e l'individuazione degli avversari (americani, russi, cinesi), dai quali ci si vuole difendere per avere qualche probabilità di successo. I presidenti dei singoli stati si ergono a difensori degli interessi nazionali nei confronti dell'UE e i governanti

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regionali se la prendono col governo nazionale, che non tiene abbastanza conto delle particolarità del loro territorio.
Quindi, per avere consensi, si presume sia necessario chiudere, proteggere, difendere, convincere tutti che i problemi vengono dell'esterno e così (da sempre e ovunque) i veri problemi interni vanno in secondo rango e spesso non vengono nemmeno visti o considerati.

Malgrado tutti i faticosi e piccoli progressi, malgrado la tecnologia così avanzata, si continuano a tollerare le guerre, i massacri, i fanatismi religiosi e la prepotenza di integralisti o di dittatori, basta che siano abbastanza lontani e che si possano adottare adeguate misure di difesa, per esempio acquistare nuovi aerei da combattimento o irrigidire le leggi sull'asilo politico. La conseguenza è che la gran parte del mondo si trova ancora in pieno medioevo, con problemi esistenziali gravissimi, con fame, paura per la propria incolumità, schiavismo e tutto il peggio che l'umanità ha saputo produrre.

Spesso si ritiene che alcune popolazioni non siano ancora mature per la democrazia. Naturalmente ci si riferisce sempre alle popolazioni di altri paesi o di altri continenti, non certo del proprio o della propria categoria sociale. In realtà, però, il problema è universale e l'idea che solo la maggioranza sappia produrre progresso e benessere per tutti è ingenua e assolutamente priva di qualsiasi riscontro. Semmai ci sono numerose prove del contrario.

Moltissime popolazioni di esseri viventi funzionano soltanto grazie a un'organizzazione verticistica, in cui il capo (responsabile), o la regina, o il maschio alpha hanno il compito e il dovere di decidere, di guidare il gruppo e di scegliere il luogo più opportuno per stare.
Questo modello di organizzazione è tipico anche per quasi tutte le razze di primati. Soltanto lo sviluppo dell'intelligenza umana ha reso possibile, dopo molti millenni di evoluzione, una maggiore compartecipazione nelle decisioni, senza però riuscire a eliminare la necessità di avere un capo o un governo responsabile a cui delegare il compito di prendere decisioni.
Pertanto il progresso, l'estetica del territorio e delle sue edificazioni, la diffusione della cultura, il benessere delle popolazioni dipendono sempre dall'intelligenza, dall'apertura e dalle capacità dei governanti.
L'idealizzazione della democrazia diretta, come metodo per ottenere risultati strabilianti è alquanto illusoria e serve solo a tutelare i vantaggi degli aventi diritto al voto. Difficilmente produce solo decisioni illuminate con effetti di sviluppo a lungo termine.

Uno dei maggiori tabu per l'umanità, grazie soprattutto alla letteratura fantascientifica, è quello di immaginare un governo mondiale che non sia una dittatura assoluta.
Una semplice e logica analisi storica di quanto si è verificato nel mondo negli ultimi secoli, con la fondazione degli stati moderni, partendo da situazioni molto più confuse e dominate da re, da papi o da imperatori con possedimenti vicini e lontani, colonie, schiavitù, separatisti, principati autonomi, dominio su regioni sottomesse, a volte ricevute in regalo dai regnanti o in compenso per servizi resi, ci si rende conto di come l'organizzazione attuale delle nazioni sia stata una conquista difficile, che ha richiesto ogni sorta di guerre, rivoluzioni, sacrifici, eroi e idealisti.
Oggi si celebrano i padri della patria, i liberatori, gli unificatori, ci si emoziona per la bandiera nazionale, per l'inno patrio, per le nazionali di calcio e di tutte le altre discipline olimpiche, ritenendo generalmente che la struttura nazionale moderna sia stata comunque una conquista rispetto a tutta la confusione precedente.
Naturalmente in molte regioni del mondo il processo è ancora in corso, i confini vanno ancora modificati, le strutture di governo ancora migliorate o ci si deve ancora liberare dei dittatori o degli integralisti religiosi e nessuno degli errori del passato viene risparmiato, a dimostrazione del fatto che l'esperienza aiuta molto poco.
Ciò nonostante esistono modelli di democrazie avanzate e ci si rende conto del fatto che non si sono sviluppate per caso, ma attraverso scelte precise, di separazione dei compiti tra religione e stato, sancendo il diritto dei cittadini di associarsi in partiti con proposte politiche per fare eleggere i loro rappresentanti, dotandosi di costituzioni liberali, di leggi che regolano la

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convivenza pacifica e naturalmente adottando un'equa fiscalità che permette di finanziare le istituzioni sociali. Il federalismo, come modello di struttura nazionale, ha dato i migliori risultati e rafforzato la coesistenza e il successo economico degli stati in cui è praticato con coerenza, mantenendo alle regioni (più omogenee) sufficienti autonomie.
Tutto ciò però, prima di essere realizzato, ha dovuto essere immaginato da qualcuno e forse anche sperimentato. Continuamente è stato necessario correggere gli errori e le conseguenze nefaste per esempio della rivoluzione d'ottobre, del nazifascismo, del maoismo, della guerra fredda e ancora non tutto è concluso. Nel frattempo però si è iniziato a costituire e a sviluppare anche strutture sovranazionali, per nulla perfette ma ancora in piena evoluzione.
Non c'è nessuna ragione per non accettare un rafforzamento dei poteri di una istituzione esistente come l'ONU, rivedendone i meccanismi democratici per arrivare a farla diventare un vero governo mondiale con compiti istituzionali molto più concreti, con organi di controllo nei vari paesi, con una costituzione che si rifà alla Carta dei diritti dell'uomo e che diventi il riferimento per tutte le costituzioni nazionali.

Se lo stato liberale, laico e democratico è il prodotto delle menti più illuminate e più aperte, la stessa apertura portata ai suoi limiti più estremi, oltre il localismo, il regionalismo, il nazionalismo e andando oltre anche le unioni continentali o le alleanze atlantiche, deve portare per forza alla mondializzazione, che non ha di per sé nulla di negativo, se non nei preconcetti di chi teme di perdere potere e autonomia.

Ritenere che questa idea porterebbe a un appiattimento è priva di ogni fondamento, innanzitutto perché l'appiattimento è comunque già in corso, prodotto dalla mondializzazione dell'economia, dalle grandi ditte con le medesime vetrine, le medesime insegne e perfino i medesimi cibi in tutte le città del mondo e poi perché moltissime associazioni devono per forza avere strutture e regolamentazioni mondiali: non si potrebbero svolgere campionati del mondo senza regole uguali per tutti e senza un'organizzazione che le abbia definite e che possa anche farle rispettare a livello mondiale. Lo stesso fa la religione, con i papi, i congressi mondiali ebraici, i lama e i califfi o gli ayatollah ai quali ci si deve sottomettere a meno di non fondare una nuova religione.

In politica invece tutto dipende dalle nazioni, che decidono in totale autonomia quali medicinali sono ammessi, quali armamenti si possono fabbricare o tenere sul territorio o esportare, quale forma di governo adottare, come scrivere la propria costituzione, magari totalmente antidemocratica e votata dalle maggioranze, grazie al carisma e al populismo di nuovi dittatori. Populismo che si manifesta sempre attraverso la (pseudo) grande generosità del capo che sostiene sempre con regali e favori la propria parte politica (ricetta standard applicata da grandi e piccoli populisti, sparsi in tutto il mondo, a cui ognuno potrebbe attribuire nomi e cognomi).

Ecco il vero problema: come difendersi dal populismo capace di condizionare le masse?
Come difendersi dai populisti carismatici, capaci di rovinare i paesi, di favorire la criminalità (non la piccola delinquenza, che viene combattuta spesso in maniera esemplare), ma la grande criminalità, fatta di arricchimento con denaro pubblico, di tutela degli interessi della propria cerchia o cricca, e di repressione tremenda degli avversari.

E ancora più difficile: dove si trova il confine tra populismo e Vaticano, tra populismo e califfato, tra populismo e governi «democraticamente» eletti con maggioranze che superano il 90%, tra populismo e difesa degli interessi nazionali, tra populismo e integralismo religioso.
Esiste una soluzione (proponibile) a questo enorme problema che non riguarda soltanto un possibile governo mondiale, ma tutte le grandi o piccole organizzazioni di convivenza tra umani?
Riconoscere il problema e le banalità dei populisti sarebbe già un passo importante, per affrontare le responsabilità in modo più aperto, più laico e anche più rispettoso della dignità degli individui, inclusi coloro che non condividono questa apertura.

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Ogni contributo a impedire le chiusure rappresenta un progresso per l'umanità, specialmente se si riesce nel contempo anche a responsabilizzare i singoli in favore della convivenza.
La religione è il più classico dei populismi che sempre ostacola la convivenza con le proprie banalità e presunte verità assolute.
Lo sbaglio principale è quello di credere che le popolazioni siano cattoliche o islamiche soltanto perché questo fa parte della loro natura. Vero è che diventano cattoliche o islamiche perché crescono negli ambienti cattolici o islamici, sempre condizionati dal carisma dei capi religiosi, che influenzano gli individui per generazioni col sostegno dei genitori che a loro volta condizionano i figli.
Basta ridimensionare il potere dei preti cattolici, evidenziando anche gli aspetti negativi dei loro comportamenti sulla società e sugli individui, offrire reali alternative laiche, per esempio scuole pubbliche o ospedali migliori di quelli religiosi, per verificare come si ridimensiona automaticamente l'ortodossia e il fondamentalismo religioso nella popolazione. Anche se in Occidente la maggioranza è cristiana, pochissimi sono quelli che ancora seguono alla lettera i precetti della loro religione, mentre molti sono quelli che chiedono riforme alle loro chiese di riferimento.
Purtroppo questa laicizzazione avviene soltanto con grande fatica e con grande prudenza. Forse per non offendere nessuno e per un innato attaccamento alle tradizioni.
Laddove invece è stato represso per parecchio tempo l'estremismo islamico, le reazioni sono esattamente contrarie. Il malaffare viene individuato nel laicismo dei dittatori e delle loro famiglie, mentre si trova aiuto e conforto soltanto nelle moschee, sostenute dai petrodollari degli arabi.

Non si può uscire dal medioevo mondiale senza liberarsi della religione che però non dovrebbe mai essere repressa, ma negata dalle menti più aperte e illuminate, staccata completamente dall'organizzazione degli stati e limitata a una scelta individuale possibile, se compatibile con leggi e costituzioni che abbiano valore universale.
Quindi le Nazioni Unite dovrebbero progressivamente limitare il potere della religione e divulgare oggettivamente e regolarmente lo stato della conoscenza scientifica. Non è ammissibile che tutti gli islamici sappiano sempre cosa ha detto Maometto e tutti i cattolici conoscano ogni dettaglio della vita di Gesù mentre spesso non sanno nulla sull'età della terra o dell'universo, sulla storia dell'evoluzione dell'umanità o sulle leggi fisiche alla base del funzionamento del cosmo.
L'umanità dovrebbe sapere che l'universo può essere osservato, studiato e capito soltanto perché funziona esclusivamente secondo leggi fisiche e perché non esiste nessun intervento di intelligenza né naturale, né soprannaturale che ne modificherebbe i meccanismi fisici e renderebbe impossibile qualsiasi deduzione logica.
Lo stesso principio vale per il pianeta terra, che funziona esclusivamente secondo leggi naturali escludendo ogni assurda possibilità che esistano i miracoli. Se non fosse così le leggi naturali non avrebbero nessuna possibilità di essere capite e qualsiasi ricerca sarebbe inutile e priva di risultati.
È assolutamente necessario che vi sia finalmente una fonte autorevole che possa contrastare lo strapotere della religione, la quale può permettersi di affermare qualsiasi cosa, dall'alto dei suoi altari, nelle grandi cattedrali, nelle moschee o nei grandi spettacoli televisivi dei predicatori moderni.
I premi Nobel, generalmente poco comunicativi, che godono di prestigio universalmente riconosciuto e di cui la maggioranza è atea, potrebbero essere incaricati da un vero governo mondiale di aggiornare di anno in anno la popolazione sullo stato delle conoscenze acquisite dall'umanità, esattamente come fanno i capi di stato, quando espongono il loro rapporto annuale sullo stato della propria nazione (o dell'Unione).

Un governo mondiale dovrebbe essere una conquista che si raggiunge gradualmente e che abbia soltanto il compito di migliorare le condizioni dell'umanità studiando una costituzione ideale basata sui diritti fondamentali di tutti, sulla garanzia che siano rispettate le libertà individuali e che diventi un modello per tutte le costituzioni nazionali, le quali a loro volta dovrebbero soltanto essere compatibili con quella universale, pur mantenendo le loro specificità.

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L'autorevolezza dovrebbe derivare dal sistema democratico con cui viene formato il governo e la sua organizzazione potrebbe assomigliare molto a quella dell'attuale ONU, con un assemblea in cui siano rappresentati tutti i popoli e tutte le nazioni.
Un tale governo e una tale assemblea dovrebbero discutere le questioni fondamentali che riguardano tutta l'umanità, per esempio i limiti della democrazia, l'abolizione degli armamenti, l'utilità di una lingua mondiale, le componenti negative della religione e la necessità di avere ovunque governi laici.

Un governo mondiale non risolverà tutti i problemi dell'umanità, così come non li risolve la Commissione Europea o i governi nazionali. Gli umani continueranno a odiarsi tra di loro, ad avere pregiudizi nei confronti di chi ha altre credenze, altri modi di vivere e soprattutto di chi è meno fortunato. Ciò nonostante nessuno si immagina più un paese democratico senza un governo. Inimmaginabile è anche la collaborazione tra gli stati senza un organismo superiore come l'UE, la Lega Araba, l'Unione Africana o Nord Americana. Anche se tutte queste organizzazioni sono ancora in via di sviluppo e hanno pochi poteri, sempre di più se ne sente la necessità, per limitare le assolute sovranità nazionali e migliorare i rapporti tra gli stati. Purtroppo non riescono ancora a evitare conflitti al loro interno e danno fastidio a tutti quelli che vorrebbero poter comandare senza il controllo di altri e mantenere i propri privilegi.

Malgrado la maggiore apertura mentale possibile, si deve ammettere l'utilità e la necessità di avere regole, quindi regole condivise, senza le quali non ci può essere giustizia e applicazione della giustizia. Se il vertice della democrazia è il governo nazionale, i conflitti sono inevitabili. Ogni paese è interessato a difendere soprattutto gli interessi nazionali, come farebbero le regioni se non ci fossero i governi nazionali. I governi nazionali non hanno per forza il compito di accentrare tutto il potere, ma possono benissimo gestire democraticamente paesi con forti autonomie regionali. Ed è questo il modello che si deve poter immaginare anche a un livello superiore.

Provare a riflettere su possibili miglioramenti dell'organizzazione della società umana odierna, sembra quasi fantascientifico, come se la perfezione fosse ormai stata raggiunta! Controproposte non ce ne sono, soltanto la difesa a oltranza dello stato attuale e la speranza che tutti arrivino a conquistare autonomamente, un giorno, il benessere e la democrazia raggiunti in pochi paesi occidentali, quasi sempre a svantaggio dei paesi più poveri.

Nessuno sarà mai in grado di evitare tutti i conflitti e tutti i litigi tra gli umani. Quello che si potrebbe semmai limitare sono le stragi di popolazioni civili, vittime di guerre per interessi nazional-religiosi.
Ritenere che per la più parte delle guerre del mondo non si tratti di guerre religiose, significa avere una concezione religiosa del termine «religione». Chi ne ha una vera interpretazione laica, non fa distinzioni tra islam e dittature, tra fanatismo nazionalista e fanatismo cattolico, tra comunismo ed ebraismo: sempre si tratta di sistemi indiscutibili, di verità assolute con accuse di alto tradimento per tutti coloro che dissentono, con persecuzioni, incarcerazioni e uccisioni di chi osa ribellarsi o contestare i dogmi emanati da queste ideologie (religioni). Che differenza ci può essere per un laico (antireligioso), tra chi vuol far credere a tutti che il corano rappresenta la parola di dio ed è quindi l'unica verità assoluta, e chi vuol far credere che la razza ariana rappresenta il vertice dello sviluppo dell'umanità ed è quindi superiore a tutte le altre? Oppure che differenza c'è tra l'infinita saggezza del grande dittatore e l'infallibilità del papa?

Soltanto una vera istanza superiore potrebbe ridimensionare queste sciocche verità relative e limitarle al diritto privato e individuale di ognuno di credere ciò che vuole, premesso che abbia la possibilità di ricevere sufficienti informazioni sullo stato reale delle conoscenze scientifiche raggiunte dall'umanità fino a quel momento. In nessun caso la scienza deve rimpiazzare la

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religione o diventare un'altra religione, ma dare all'umanità il diritto di sapere fino a dove sono arrivate le scoperte riconosciute dalla comunità scientifica (diritto all'istruzione, non nazionale, ma universale), sempre nella consapevolezza di non avere il sapere assoluto, ma la assoluta necessità di continuare la ricerca.

Una delle cose più stupide di questa fase iniziale dell'era della comunicazione di massa è l'informazione parascientifica di certi sciocchi documentari televisivi, di riviste con foto di dinosauri e di pianeti di altre galassie, di siti internet fatti apposta per confondere le idee della gente, delle notiziette, più o meno verificate e quasi sempre poco spiegate, delle ultime pagine di certi giornali. Peggio ancora, quando a queste informazioni (o disinformazioni) viene aggiunto anche l'elemento del mistero o dell'inspiegabile, si torna alla più totale religiosità medievale.

Che la ricerca scientifica meriti il più grande impegno della società umana è dimostrato dal fatto che qualsiasi progresso e miglioramento delle condizioni di vita degli umani dipende soltanto dalle loro conoscenze. La capacità di capire e curare malattie, di migliorare le condizioni di lavoro, di muoversi velocemente e in modo sempre più sicuro è tutto soltanto merito della ricerca. Se si ammette che l'intelligenza riflessiva (dei pensanti) rappresenta la caratteristica principale degli umani e che la curiosità è stata probabilmente sempre il motore per progredire, ci si rende conto di come la curva del progresso aumenti in maniera esponenziale. Per inventare la ruota o per utilizzare il fuoco, ci sono voluti milioni di anni, per passare dal telefono al cellulare sono bastati cento anni, e per passare dal cellulare agli smartphones sono bastati pochi decenni.

Questo dimostra che l'intelligenza è il migliore strumento a disposizione della natura, per facilitare la vita degli individui e la curiosità ne è lo stimolo permanente. Quindi ogni risparmio sulla ricerca è soltanto sintomo di poca curiosità e quindi di poca intelligenza.

Naturalmente è altrettanto vero che la ricerca non basta come concetto per ottenere un risultato, ma occorre definire su cosa si fa la ricerca, quindi, dopo le scoperte casuali, è necessario porsi delle domande e fare delle ipotesi su cui poi lavorare scientificamente, cioè cercare di dimostrare con prove scientifiche che l'ipotesi è confermata. Tutto quello che non è dimostrabile scientificamente rimane nel campo delle ipotesi (o della religione).

Osservando per esempio gli umani, non soltanto i loro comportamenti, ma il loro fisico, la loro struttura corporea, il loro modo di muoversi, sarebbero immaginabili, per un pensante, alcune ipotesi evolutive verificatesi anche per altri mammiferi, che darebbero spiegazioni logiche su alcuni aspetti caratteristici e abbastanza strani della specie.

Gli umani sono già stati definiti, in modo molto pertinente, le scimmie nude. Questa nudità, o questa atrofizzazione dei peli corporei, appare effettivamente come un fenomeno molto strano, in contrasto con il clima e le temperature dei luoghi più popolati; la testa, invece, è rimasta stranamente coperta, addirittura con un pelo molto folto e lungo.

Un'altra caratteristica poco condivisa con altri mammiferi e con altri primati è il modo di stare e di camminare eretti. Ci si è sempre chiesti perché e come vi si sia arrivati.

C'è poi l'innegabile attrazione degli umani per l'acqua, dimostrata dai luoghi abitati, quasi sempre lungo le coste o vicino ai laghi o ai fiumi e ancora di più dai posti più frequentati per le vacanze o per il tempo libero: mare, laghi, piscine.
Una serie di elementi indicatori che non è condivisa da molti altri mammiferi e quasi da nessun primate.
Un'ipotesi interessante, naturalmente tutta da verificare, ma certamente già presa in considerazione poiché assolutamente logica, potrebbe essere quella di una permanenza acquatica della specie, in uno stadio remoto dell'evoluzione. Forse non tanto muovendosi nell'acqua come un delfino o un lamantino, ma piuttosto entrandovi dalla spiaggia per cercare i frutti caduti dagli alberi e trovandovi anche i frutti di mare, colorati e arrotondati e gustosi e nutrienti.

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Non è difficile immaginare che una permanenza prolungata nell'acqua, sulla riva di un lago o del mare, avrebbe facilitato molto e reso naturale l'abituarsi a una posizione eretta, che permetteva di raggiungere fondali più profondi.
La quantità di cibo disponibile in certe rive, poteva essere molto interessante, continuativa e avere un valore nutritivo maggiore di quello delle foglie fresche o dei frutti stagionali maturi, da raccogliere faticosamente sugli alberi.
L'acqua avrebbe potuto rappresentare anche un luogo più sicuro della savana aperta e piena di belve feroci e di pericoli di ogni genere.
Questa ipotesi sarebbe adatta anche come spiegazione per i capelli degli umani che li avrebbero protetti dal sole durante i loro «bagni».
Non necessariamente questo significa che vivessero nell'acqua, ma che vi passassero molto tempo, come fanno ancora oggi gli ippopotami.
Stranamente gli altri primati non mangiano pesci, non nuotano ed evitano l'acqua, mentre gli umani ne sentono ancora oggi una enorme attrazione. Si lavano e godono come altri mammiferi poco pelosi, per esempio gli elefanti, il piacere dell'acqua sul loro corpo.
Addirittura si potrebbe ipotizzare che l'ambiente acquatico stesso, i pesci che vi si trovano e il problema di catturarli abbiano contribuito molto allo sviluppo dell'intelligenza e dell'utilizzo di strumenti. Magari inizialmente soltanto piccoli rami, come li usano gli scimpanzé per estrarre le termiti dai tronchi, poi aggiungendovi un sassolino appuntito e così via. Molto verosimile sarebbe anche immaginare l'utilizzo di un filo o di qualcosa che assomigli a una rete per catturare i pesci, inventando con ciò anche la tessitura e i tessuti. È probabile anche che il primo pesce caduto nel fuoco abbia dato inizio alla cultura gastronomica.
Se gli umani (o gli ominidi), scendendo dalle piante si fossero dedicati subito soltanto alla caccia, molti comportamenti, molte caratteristiche fisiche e anche molte invenzioni sarebbero più difficili da spiegare.

Pensare è un'attività interessante, creativa, senza limiti di dimensioni, di spazio, di tempo o di denaro. Si possono immaginare opere d'arte, storie, edifici, planimetrie di città, macchinari, situazioni particolari, ideologie o soluzioni di problemi e lo si può fare seguendo un filo logico oppure saltando da un argomento all'altro. Mai i pensieri sono divisi per capitoli e spesso i temi vengono ripresi e ripensati da altri punti di vista. Certamente il pensiero precede qualsiasi produzione importante degli esseri umani, e, più il prodotto da realizzare è complesso, più il cervello deve avere forza di immaginazione, capacità di analisi e, per finire, capacità di sintesi per comunicare in maniera logica e coerente quello che è stato pensato.
I pensieri non comunicati vanno persi senza avere prodotto nulla.

La realizzazione e anche la ricerca sono la parte più impegnativa, spesso lunga e complessa, che richiede capacità, conoscenze, pazienza, a volte sforzi importanti e in molti casi non rappresenta la conclusione dell'attività del pensare, ma viene svolta da chi si specializza nelle esecuzioni. Quasi sempre il pensatore si limita a comunicare le sue teorie, che in qualche caso altri riprendono e provano a realizzare o a studiare. Molto però non viene nemmeno comunicato e rimane soltanto una memoria dimenticata (o forse non completamente?).
L'abilità degli esecutori sta nel realizzare, nel concretizzare, nell'ottenere risultati, grazie al loro impegno, alla loro costanza, alla loro volontà. Per pensare rimane poco tempo.

La genialità è la combinazione della capacità di pensare e di realizzare, ma purtroppo viene spesso attribuita soltanto ai realizzatori, anche quando la realizzazione è il prodotto di pensieri altrui.
I pensatori invece non hanno quasi mai il tempo materiale e le capacità pratiche di realizzare tutto quanto riescono a produrre coi loro pensieri. Forse si annoierebbero troppo, se dovessero anche realizzare quello che hanno saputo immaginare.

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A volte anche i grandi leader si credono pensatori e la loro principale abilità è quella di attorniarsi di realizzatori, che contribuiscono a mantenerli al vertice eseguendo i loro ordini o agendo secondo le loro direttive. A dipendenza della saggezza e dell'intelligenza dei leader, i risultati sono i grandi capolavori o le grandi catastrofi del mondo.

I liberi pensatori invece producono idee, senza avere a disposizione realizzatori. Questi ultimi possono scegliere liberamente (o per interposta persona carismatica) di realizzare o meno le idee disponibili.

Una delle caratteristiche più evidenti del sistema evolutivo è la grande lentezza con cui si modificano le strutture e gli esseri viventi. Soltanto le grandi catastrofi provocano cambiamenti rapidi, che poi impiegano milioni di anni per riadattarsi e rimodellarsi. Gli spostamenti della crosta terrestre, i vulcani e i terremoti possono produrre le catene montuose e tutti sanno che le montagne sono tutte destinate ad appiattirsi. È soltanto una questione di tempo, ma pian piano si sgretolano, anche se ogni volta ci si meraviglia che dalle montagne scendano le frane o le valanghe. Il fatto stesso che tutto il sistema si continui a modificare e ad adattare, dimostra che l'evoluzione non è terminata e che forse non terminerà mai. Per cui nulla è stato creato così come ci appare oggi, ma tutto è in continuo cambiamento e in continua evoluzione, smentendo qualunque sciocchezza creazionista alla base di ogni religione.

L'umano pensante vorrebbe contribuire all'evoluzione, almeno a quella della sua specie. È però sempre frenato dalla stupidità dei suoi consimili, dalla religione, dalla violenza, dall'ignoranza e dalla rassegnazione di coloro con i quali si confronta. Stranamente sono sempre tutti più propensi ad accettare lo status quo, piuttosto che prendere seriamente in considerazione un'alternativa. Gli esseri viventi devono solo adattarsi al loro ambiente cercando di sopravvivere, magari imponendosi agli altri. Alcuni lo fanno marcando il territorio, alcuni lo fanno cinguettando o ululando, altri lottando o eliminando gli avversari. La convivenza riguarda sempre soltanto il piccolo gruppo. Il pensante però si rende conto anche delle conseguenze di un simile comportamento e riesce ad immaginare un gregge allargato a tutta l'umanità e non può concepire che altri, in nome di Maometto, di Allah, di Gesù Cristo, di Stalin o di Pol Pot, possano uccidere e sterminare, facendo solo regredire l'evoluzione umana.

Credere che qualcuno abbia la soluzione perfetta per risolvere tutti i problemi dell'umanità è fuori da ogni realtà. Constatare però che ci sono e ci sono stati progressi nella convivenza tra gli umani è altrettanto evidente per tutti. Capire che tutti i progressi derivano dall'intelligenza, e quindi dall'apertura mentale, dovrebbe far riflettere chi vuole assumere ruoli di responsabilità.

Ancora cento anni fa un diverso colore della pelle era sufficiente per essere discriminati e non considerarti nemmeno degli esseri umani. Per non parlare delle teorie razziali propagate dal nazismo e prive di ogni fondamento, malgrado tutti i tentativi di darne spiegazioni scientifiche.
È abbastanza evidente anche il fatto che le nazioni non si possono costruire dall'esterno, con il righello, ma sono sempre il prodotto di una storia di lotte tra raggruppamenti molto più piccoli, fatti di clan, di tribù, di invasioni, di minoranze che in un qualche momento decidono lo stesso di volersi mettere d'accordo e provare a fare qualcosa insieme. Nessuna nazione europea (o di qualsiasi altro continente) è totalmente omogenea, fatta di persone tutte uguali, che parlano la stessa lingua o che ne hanno lo stesso accento, che hanno la stessa religione, che hanno lo stesso identico modo di vivere. Nessuna nazione moderna è stata formata senza difficoltà e senza tentativi sbagliati. Purtroppo l'esperienza degli altri non basta per realizzare dappertutto il diritto all'indipendenza dei popoli e alla formazione di nazioni prospere e pacifiche.

L'indole guerrafondaia degli umani, la loro predisposizione a stare in piccoli gruppi, a delimitare i loro confini è in evidente contrasto con la curiosità (intelligenza), con la necessità di esplorare nuovi territori e di conoscere e di capire il mondo (universo). Questa conflittualità è

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probabilmente una concausa del successo della religione, poiché la religione risolve il problema della curiosità e la condanna, rispondendo, con pure invenzioni, a tutti gli interrogativi scientifico-filosofici delle masse, promettendo loro anche premi importanti (dopo la vita terrena).

Il maggiore rischio per il pensante è quello di produrre teorie che assomigliano a proclami o a manifesti che, se ripresi da personaggi carismatici, rischiano di diventare nuovi dogmi indiscutibili. Per il pensante liberale, l'attività del pensare è interessante soltanto se rivolta ad altri pensanti, con i quali vorrebbe entrare in discussione e dimostrare intellettualmente la costruzione logica dei propri ragionamenti, esattamente come per uno sportivo, la pratica dello sport diventa interessante soltanto attraverso la competizione.

L'origine, il motore per l'attività intellettuale è certamente la curiosità, il mezzo è l'intelligenza, ma lo stimolo più importante per lo sviluppo delle idee è quasi sempre l'avversario.
Ognuna delle grandi teorie che hanno attraversato la storia degli umani si è fondata su un nemico da combattere:
Il paganesimo per i seguaci del monoteismo ebraico.
Gli dei dell'Olimpo per Socrate.
I colti e gli studiosi dei libri sacri per Gesù, che li rimproverava dei loro privilegi e della loro agiatezza.
Gli infedeli per Maometto. In pratica tutti coloro che non lo accettavano come nuovo grande profeta e tra questi in primo luogo gli ebrei, da cui aveva copiato quasi tutto, nella speranza di diventarne il capo e che poi, non riuscendovi, ha massacrato e schiavizzato nella maniera più brutale, esattamente come fanno oggi i salafisti.
I nobili per la rivoluzione francese.
Il capitalismo per i marxisti.
Gli ebrei per i nazisti.
Gli oligarchi, la finanza o la borsa per le teorie di Jean Ziegler.

Ogni trattato di filosofia è il tentativo di dimostrare che un trattato precedente è lacunoso e non completamente logico. Ogni formazione politica si costruisce attorno ai propri nemici: gli stranieri, i frontalieri, i comunisti, il centralismo, il neoliberismo.
Pertanto sembra assolutamente usuale dover eliminare idee preconcette, criticare sistemi precostituiti, mettere in discussione valori culturali tradizionali, prima di poter provare a formulare ipotesi alternative. Nulla di strano, quindi, se si continua a cancellare la lavagna ogni volta che si vuol provare ad esporvi un'altra teoria.
Probabilmente è un meccanismo che fa totalmente parte del sistema evolutivo e che funziona esattamente allo stesso modo anche in natura, causando la lentezza con cui avvengono i cambiamenti che prima vanno collaudati e consolidati.
L'intelligenza però riesce anche a superare e ad accelerare il meccanismo, per esempio con la manipolazione genetica o, da molto più tempo, con l'allevamento e l'incrocio di nuove razze animali o nuove specie vegetali.

Interessante immaginare, in modo del tutto teorico, la possibilità di essere riusciti a eliminare dal mondo ogni forma di religione, in tutti i suoi aspetti e con tutti i moralismi che ne derivano.
Via tutto ciò che è o assomiglia alla religione, tutto quello di cui non è ammesso discutere, tutte le differenze derivanti dall'appartenenza a una religione.
Cosa ne sarebbe delle guerre, dello stato islamico, del papa, di tutto il Vaticano e della chiesa in generale, degli ebrei ortodossi, degli appartenenti alle sette, dei fanatici tradizionalisti americani, dei monaci buddisti, dei tibetani, se tutti avessero con le loro tradizioni lo stesso rapporto che abbiamo oggi nei confronti dell'Acropoli, dei templi maya o delle piramidi egiziane? Testimonianze favolose di culture passate, da conservare e da rispettare, ma senza il benché minimo riferimento alla vita contemporanea.

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Come sarebbe un mondo in cui tutti si capissero avendo imparato tutti la lingua della comunicazione, in cui non ci fossero pregiudizi di tipo religioso, e il cibo e le tradizioni locali fossero accessibili a tutti (almeno a coloro che se ne interessino), non si perdesse tempo e non si sprecassero soldi per la pratica, la protezione e la diffusione della religione?
Come sarebbe un mondo aperto, in cui i paesi esistessero come finora, ma senza formalità di confine, in cui gli spagnoli avessero tutti i diritti di parlare catalano o castigliano o basco, ma in cui tutti avessero fatto le scuole in inglese e sapessero comunicare perfettamente con i tedeschi o con gli svedesi?
Come sarebbe la ex Jugoslavia senza differenze tra cattolici, ortodossi, mussulmani o ebrei?
Come sarebbe Israele, senza la convinzione dei coloni di avere diritti biblici sul territorio e senza l'odio coranico dei mussulmani verso gli ebrei?
E se sciiti e sunniti avessero dimenticato di essere seguaci di uno o dell'altro parente di Maometto?
Come sarebbe l'Ucraina se tutti parlassero inglese e se anche i russi lo parlassero, se le navi da guerra in Crimea non appartenessero più allo stato russo, ma fossero in dotazione soltanto alle forze dell'ONU?
E come sarebbe il Venezuela, se ci fosse anche in Sudamerica un organizzazione simile all'UE che imponesse ai governanti, anche se democraticamente eletti, di seguire le regole comuni derivanti da una moneta unica, come avviene per i paesi dell'EURO?
Come sarebbe l'Ungheria o la Polonia se l'UE avesse maggiori poteri nel far rispettare regole comuni di reale democrazia e rispetto delle minoranze e dei diritti umani?
Cosa ne sarebbe del populismo, se aumentasse dappertutto il livello culturale, grazie ai risparmi degli sprechi in attività religiose, traduttive, finanziarie e militari?
Sicuramente non sarebbe un mondo perfetto e nemmeno un paradiso terrestre, ma verosimilmente ci sarebbero tantissimi problemi in meno e, come avviene oggi nelle democrazie più avanzate, si potrebbero affrontare problemi fondamentali, che riguardano l'esistenza e il benessere dei singoli individui invece di dover affrontare continuamente soltanto le emergenze, le guerre, la fame nel mondo, i profughi e i rifugiati.

La questione fondamentale riguarda quindi un radicale spostamento di valori, passando dal fondamentalismo o dal fanatismo religioso alla razionale volontà di smettere di impostare la convivenza tra gli umani su valori morali e religiosi.
Continuare a confondere la conoscenza e la cultura con l'interpretazione dei testi biblici, talmudici o del corano, non contribuisce al progresso dell'umanità. I testi ritenuti sacri sono semplicemente curiosità storiche sulle culture del passato e non hanno e non possono avere la pretesa di rappresentare verità assolute, dopo che la scienza, malgrado gli impedimenti e l'oscurantismo religioso, ne ha ampiamente dimostrato l'assurdità.
Le verità religiose si annullano a vicenda dai loro stessi racconti rendendone impossibile un'accettazione globale. Quindi è gioco forza sceglierne una che, diventando un'impostazione della propria vita, renda inevitabile il conflitto con tutti quelli che non la condividono. La scelta poi è quasi sempre totalmente inesistente, ma semplicemente una questione di nascita.
Il compromesso o la tolleranza per gli altri diventa possibile soltanto attraverso una relativizzazione dei dogmi. In pratica l'annullamento dei fondamenti stessi della religione, inventando un'accettazione reciproca che non ha nulla di biblico o di coranico. Spesso sono proprio questi tentativi di aperture condizionate (come quella del concilio vaticano II) a provocare in alcuni addirittura il fondamentalismo radicale, cioè la reazione contraria.

L'errore è quello di ritenere sbagliati i terroristi cattivi, i fondamentalisti, gli inquisitori, quelli che hanno diffuso il cristianesimo con la violenza o l'islam con la prepotenza e con i massacri, invece di capire che il problema sta nei testi «sacri» stessi che pretendono dagli addetti esattamente tutte queste cose.

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I tolleranti, i relativisti, i dubitativi, gli agnostici, coloro che inventano la «casa delle religioni» sono il vero problema perché impediscono di combattere in modo compatto la religione e tutti i guai che produce nel mondo.
La religione non è un fatto marginale nella vita degli umani, ma influenza completamente tutto il modo di pensare e di agire, essendo al di sopra di qualsiasi altra regola di convivenza (legge).
Che valore hanno le discussioni sulle leggi, la concretezza dei politici, il pragmatismo, se al di sopra di tutto vi è la religione del paese, con le sue tradizioni, i suoi moralismi e le sue certezze?

Chi non riconosce il problema della religione continuerà a produrre decisioni politiche di tipo conservativo, cioè tendenti a mantenere le cose come stanno, accontentandosi di affrontare i gravi o gravissimi problemi che toccano un singolo paese o una singola regione, ma senza una visione di sviluppo globale.
Tutto si limita al regionalismo e la concretezza diventa una discussione infinita su temi locali, in cui ognuno trova un altro dettaglio su cui si dovrebbe intervenire per dare l'impressione di saper risolvere tutti i problemi della gente.

Naturalmente è il significato della parola religione che va definitivamente chiarito, non essendovi nei vocabolari altro riferimento che non riguardi la spiritualità. Per un libero pensatore laico, antireligioso la spiritualità è un concetto religioso, come l'anima, la coscienza, la santità, la sacralità, il bene e il male. La negazione della religione ne elimina di conseguenza anche tutti i derivati, o forse è proprio attraverso l'evidente inesistenza e la totale mancanza di spiegazioni scientifiche di questi derivati, che si può dedurre sia sbagliata anche qualsiasi religione. Quindi religione, per un antireligioso, non può essere definita con questi termini, ma occorre una definizione laica, che parta dal concetto di dogma: verità assoluta.
Religione è una spiegazione dogmatica, indubitabile e indiscutibile, dell'origine del mondo, di chi l'ha fatto e ne è (o ne sono) l'autorità suprema, di quando e di come è stato fatto e un elenco di regole assolute che condizionano l'esistenza degli umani, generalmente con la promessa di un premio o la minaccia di una punizione finale.
L'autorità suprema è praticamente sempre un umano con doti soprannaturali superiori a quelle delle masse, spesso discendente diretto degli dei o figlio di dio, per cui il faraone, il profeta, il grande condottiero come Alessandro Magno, che ad un certo momento decide di essere figlio di Giove o Giulio Cesare, sommo pontefice romano, discendente da Venere; o ancora gli imperatori cinesi e giapponesi considerati divini, i grandi re persiani, i sovrani delle civiltà precolombiane, i papi infallibili, gli zar e i regnanti europei spesso capi della religione locale, così come tutti i dittatori grandi e piccoli che la storia ha prodotto.
Sempre sono attorniati da una cerchia di gerarchi, di sommi sacerdoti, di cardinali, di nobili, di apostoli, non a caso di leccapiedi, che ne consolidano e ne rafforzano l'autorità. A volte questi gerarchi hanno la funzione primaria di rendere accettabili i più primitivi, ignoranti e volgari populisti grazie a un atteggiamento più moderato e in certi casi addirittura colto ed educato.

Da secoli e millenni le società umane sono state organizzate in questo modo. La democrazia, la conoscenza, la logica, il buon senso, sono sempre stati subalterni al sistema religioso.
Le guerre sono soltanto guerre di religione, non certo di desiderio di convivenza. Il razzismo ha sempre una componente religiosa e non può essere il prodotto della logica o del buon senso.
L'egoismo contrasta con la necessità di vivere con gli altri, ma è parte integrante del modo di essere degli umani e insieme alla paura viene semplicemente sfruttato dai pretendenti al potere, per farne un egoismo di gruppo e per illudere i seguaci di saper risolvere i problemi con le chiusure, i muri e le barriere, o con le guerre (sante).

Purtroppo addirittura la scienza e la pretesa divulgazione scientifica di certi documentari o di certi canali televisivi di cultura, le discussioni filosofiche (ad alto livello) attorno al tema religioso, finiscono per rafforzare anche tra gli atei l'idea di intoccabilità della religione.

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Il grande interrogativo sembra essere quello di sapere se l'origine dell'universo sia casuale o un atto di volontà di un creatore.
La domanda è assolutamente lecita e interessante, ma a tutt'oggi non esiste una risposta, così come non esiste una risposta a molte altre domande simili:
Cosa c'è oltre l'universo? Cosa c'era prima dell'universo? Esistono universi paralleli? Esistono altre dimensioni? Cosa sono esattamente i buchi neri? Dove finisce tutto ciò che inghiottono?
L'intelligenza ci permette di formulare delle ipotesi su cui attivare la ricerca scientifica, ma fintanto che non ci saranno prove sufficienti le ipotesi restano tali e non possono essere spacciate per verità.
Ci si può anche chiedere se di fronte alla disparità di dimensioni, tra l'universo e il cervello umano, con le poche possibilità fisiche degli umani, sia verosimile ipotizzare una comprensione totale dell'inizio, del prima e del dopo o dell'oltre l'universo.
Difficile immaginare che le formiche possano capire che la terra è rotonda e fatta di continenti e di oceani. Un elefante invece può conoscere spazi maggiori di territorio, zone umide, zone secche, i fiumi, il mare, il deserto, le stagioni, altri animali, le piante e molte altre cose funzionali alla sua esistenza di elefante e alla sua curiosità.
Gli umani hanno inventato strumenti con i quali possono fare addirittura piccoli spostamenti nell'universo, per lo più attorno alla terra e forse verso qualche pianeta vicino, ma la vera conoscenza deriva dall'esserci stati e qui le possibilità sono veramente limitate.
La ricerca scientifica è un fatto importante che permette di conoscere sempre meglio le regole della fisica, della chimica e dell'astronomia o della biologia, ma l'idea di un sapere completo è probabilmente poco umana.
Le certezze invece si possono avere su quello che non è e che non succede.
Quand'anche l'inizio dell'universo fosse dovuto a un creatore, non c'è nessun dialogo dimostrato tra quest'ultimo e gli umani. La possibilità di un dialogo è paragonabile a quella che si potrebbe immaginare tra un capodoglio e un batterio.
Sebbene in natura vi sia una interdipendenza totale, organizzata dalle regole biologiche, fisiche e chimiche, il dialogo è un'altra cosa ed è possibile soltanto tra esseri simili.
La comunicazione semplice fatta di colori, di odori, di temperature, di luminosità, non può ancora essere definita un dialogo. Per avere un dialogo occorre reciprocità, cioè un segnale di andata e uno di ritorno, ma soprattutto è necessario che i dialoganti abbiano sensazioni e sensibilità comuni. Un umano può segnalare affetto a un cane e riceverne chiari segnali di reciprocità, poiché le due specie sono animali da branco, che hanno bisogno dell'affetto dei membri del loro gruppo. Si può fare lo stesso con un gatto e ricevere da quest'ultimo un segnale di piacere fisico, ma non di affetto incondizionato, poiché il gatto è un felino solitario e non ne ha bisogno.
Tra gli umani, nel corso dei secoli, si è sviluppato un linguaggio complesso e complicato fatto di gesti e di suoni, che sono diventati parole probabilmente grazie alla scrittura, cioè alla necessità di comunicare a distanza, quindi senza l'ausilio dei gesti. Interessante constatare che un linguaggio complesso viene usato anche da altre specie quando comunicano a distanza, per esempio il canto delle balene.
Evidentemente per il linguaggio scritto non basta mettersi d'accordo nel gruppo (branco) sul significato dei suoni, ma occorre una lingua comune, con regole definite e note a tutti gli utilizzatori. Nel branco rimane probabilmente il linguaggio semplice (locale) fatto probabilmente più di monosillabi che di vocaboli complicati. Anche quando una lingua strutturata (scrivibile) viene accettata su un territorio più ampio, il piccolo branco continua a utilizzare il proprio linguaggio di monosillabi e perfino quando la lingua ufficiale viene adottata da tutti, nel branco la si riduce di nuovo a monosillabi, ed ecco inventato il dialetto. Poiché questa pratica è in uso da millenni, il cervello umano è molto predisposto a padroneggiare due lingue e questa realtà faciliterebbe molto l'introduzione di una lingua internazionale della comunicazione, pur mantenendo tutte le lingue locali (nazionali).

La telepatia invece non ha mai avuto una conferma scientifica e allo stesso modo non è mai stata dimostrata la possibilità di dialogare con un eventuale creatore o con le anime dei defunti.

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Soltanto la psicologia può tentare di spiegare per quale motivo ci si illude così facilmente che sia reale ciò che si vorrebbe che fosse: si sentono le voci, si hanno le visioni e si beneficia dei miracoli o del sostegno dei parenti defunti.

Da un punto di vista puramente logico è sotto gli occhi di tutti che un sistema così casuale di catastrofi naturali, un ecosistema così crudele ed ingiusto, in cui il più grosso si nutre del più debole e un'umanità così guerrafondaia non possano essere il prodotto di un buon dio misericordioso.

Per tanto il problema della casualità o dell'intervento di un creatore nel fare esplodere il big bang non modifica assolutamente nulla alla condizione umana, che sottostà soltanto alle leggi naturali, così come l'universo intero sottostà soltanto a leggi fisiche, con tutti i disastri e le distruzioni che questo provoca. Il problema non è nemmeno religioso, poiché la religione ha ben altre preoccupazioni: in primo luogo quella di far rispettare i moralismi che lei stessa ha inventato. La religione non si pone il quesito in quanto ha una visione del tutto completa di come e di quando è stato creato il mondo.
Peccato che di alcune romantiche narrazioni religiose come quella del paradiso terrestre o del diluvio universale, non vi sia la benché minima traccia, malgrado si sia riusciti a ricostruire moltissima parte della storia del pianeta terra, attraverso i ritrovamenti di resti di dinosauri, di fossili di animali primordiali, di ossa di ominidi eccetera.
Qualunque storia religiosa della creazione ha soltanto il valore di una fiaba o di un racconto fantasioso, che in ogni caso non ha nulla a che vedere con la realtà.
Soltanto i dottori della chiesa, i gesuiti o i grandi rabbini spiegano come le sacre scritture vadano interpretate e, nel campo delle interpretazioni, non ci sono limiti di adattamento delle storie.
Stranamente in quasi tutto il mondo occidentale si è riusciti a eliminare completamente il politeismo romano, greco, egizio, arabo, persiano o celtico, che ha prodotto le meraviglie architettoniche del passato che ancora oggi tutti ammirano, sostituendolo con fantasie monoteiste di almeno uguale assurdità, capaci di resistere malgrado la scienza. Naturalmente il passaggio al monoteismo è stato sempre e dappertutto imposto con la violenza e col ricatto.
Oggi la libertà di culto è parte integrante dei fondamentali diritti umani e la religione è diventata un tabù intoccabile. La «libertà di culto» è libertà soltanto se è il frutto di una libera scelta, non di un'imposizione dalla famiglia o dalla società in cui si cresce e in cui si vive.

Il maggiore rammarico è quello di vedere così tanto spreco del poco tempo disponibile con questioni religiose. Gli umani, così come alcuni altri mammiferi superiori, hanno un'aspettativa di vita, nelle piene facoltà fisiche e mentali, intorno ai quarant'anni. La medicina moderna ritiene di avere quasi raddoppiato questa aspettativa, ma naturalmente soltanto se si escludono le piene facoltà fisiche e mentali. Gli sforzi per migliorare la qualità dell'esistenza sono ragguardevoli, ma i successi non ancora proprio soddisfacenti.
La definizione di morte come morte cerebrale, con un preciso momento di fine vita, è un'importante e sicuramente giusta convenzione giuridica. Da un punto di vista più naturale si deve invece ammettere che la morte è un lento processo, che inizia col deperimento, la diminuzione e il mal funzionamento di tutti gli organi del corpo, percepibile dai sintomi più marginali, come la diminuzione della vista dopo i quarant'anni, la formazione di rughe il rallentamento motorio, la perdita di pigmentazione ecc.
Pertanto il merito della medicina non è soltanto quello di aver allungato la durata media della vita, ma soprattutto quello di aver allungato notevolmente la durata della morte.
Tutti gli organismi viventi muoiono, anche se non per tutti si può stabilire una morte cerebrale.
Una mela non muore, ma marcisce. Il processo è molto simile a quello che si verifica sul volto di un vecchio umano: raggrinzisce, appaiono delle macchie marroni, cambia il colore della pelle e tutto tende a cadere verso il basso, provocando un'espressione dubitativa (insicura) attraverso le rughe della fronte e attorno alla bocca, negativa (quasi schifata) con le labbra sottili arcate verso il basso, gli occhi rimpiccioliti, ingialliti e socchiusi, per non parlare della dentatura, dei peli

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che crescono nei luoghi sbagliati, delle protuberanze che appaiono nelle pieghe del volto. Tutto sembra fatto apposta per provocare ribrezzo e avversione per i vecchi, tenuti in vita con medicinali, operazioni e terapie varie che però non impediscono la diminuzione dell'udito, della memoria, della vista, della mobilità e, peggio ancora, della capacità di gestire i propri bisogni fisiologici.
Purtroppo la conclusione è spesso preceduta da una lunga fase di esistenza priva di prospettive e quasi sempre anche priva di dignità umana.
Il suicidio rappresenterebbe la soluzione del problema, ma in realtà non è parte delle normali possibilità degli umani, che possiedono uno sviluppatissimo istinto di sopravvivenza. La premessa indispensabile per un suicidio è una forte depressione, capace di sopraffare tutti gli altri istinti. Quando però si arriva verso la conclusione della vita, manca di solito la forza per farlo o addirittura la consapevolezza dello stato in cui ci si trova.
Quindi soltanto una valida commissione etica, fatta di medici, infermieri, parenti e forse giudici, potrebbe evitare alle persone di dover supportare un finale così poco sensato e dignitoso. Naturalmente sarebbe di notevole aiuto una dichiarazione autenticata, fatta in tempo utile, di desiderare una morte dignitosa, quando non ci sono più cure possibili, quando si soffre o si perde irreversibilmente la propria autonomia fisica e mentale.
Ancora una volta l'ostacolo principale è la religione coi suoi moralismi.
La più insopportabile interpretazione di etica è quella che pretende di dover sopprimere un animale sofferente, per il quale non ci sono più rimedi medici, mentre si deve tenere in vita a tutti i costi un umano sofferente, in nome di un'etica confusa con la morale.

Certamente per un tema sensibile come quello dell'eutanasia attiva, soggetta ad ogni sorta di possibili abusi, non bastano poche righe per elaborarne un regolamento di attuazione. Allo stesso modo non basta il desiderio di liberarsi dalla religione, per migliorare il mondo. La laicità andrebbe vista dalla politica e dalla cultura come un valore da difendere e da propagare.
I laici e gli atei dovrebbero avere il coraggio di dire che non è vero quello che vogliono far credere i religiosi, e che non c'è nessuna ragione logica perché sia vera una sola delle diverse sciocchezze dogmatiche propagate da una delle varie credenze.
Il rispetto lo possono pretendere gli esseri viventi, non le sciocchezze che credono.
In politica ci si è ormai abituati alla totale insofferenza per le opinioni altrui. Nessun politico in campagna elettorale può permettersi di condividere le idee degli avversari e deve fare di tutto per dimostrarne l'assurdità, anche se a volte sarebbe auspicabile una maggiore onestà intellettuale.
Soltanto nei confronti della religione esiste un'inibizione totale e perfino di fronte ai massacri provocati in nome della religione, si fa di tutto per «non generalizzare» e per dimostrare, attraverso le interpretazioni moderne dei libri sacri, che in realtà la religione è pacifica e tollerante.
Chi avesse osato, qualche anno fa, criticare o mettere in dubbio dogmi della fede cattolica, addirittura riguardanti il sistema solare, avrebbe rischiato accuse di eresia e spesso anche la pena di morte, sentenziata da papi, cardinali o vescovi, di fronte ai quali ancora oggi si inchinano con reverenza i laici e gli atei più convinti.
Il papa viene considerato universalmente una figura di pace, anche se continua a discriminare le persone, a proibire i preservativi, a non praticare la pari opportunità (tanto declamata dai politici più illuminati) tra uomo e donna.

Non si può immaginare una laicizzazione dell'umanità se nessuno osa dire che:
- Non esiste il buon dio;
- Non esiste allah il misericordioso;
- Nessuno ha mai dialogato con dio o con allah (e non è obbligatorio scrivere in maiuscolo questi nomi di inesistenti).

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- Abramo era un fanatico disposto ad ammazzare un figlio, pur di dimostrare l'esistenza assurda di dio.
- Mosè non ha mai ricevuto da dio le tavole della legge.
- Gesù Cristo non è dio e nemmeno figlio di dio, ma un analfabeta che si credeva rabbino.
- Maometto non ha mai ricevuto da allah le istruzioni per scrivere (o far scrivere) il Corano.
- La madre di Gesù non era vergine.
- Le colombe non sono spiriti santi e viceversa.
- A Lourdes non è mai guarito nessuno per immersione in acqua sporca.
- Budda non ha raggiunto il nirvana, ma è morto come tutti gli altri esseri viventi, probabilmente di fame.
- Il Gange non è un fiume sacro e nemmeno il Nilo.
- Non esistono montagne sacre, anche se lo credono gli aborigeni o gli indiani d'America.
- Le nazioni, gli imperi, le chiese non sono sacre.
- Non esiste il grande architetto dell'universo e nemmeno l'oriente eterno.
A tutti i religiosi è consentito di propinare (magari settimanalmente) ai loro addetti le verità dogmatiche dei loro testi sacri, spesso mettendoli in guardia dalla religione avversaria, mentre un antireligioso deve ancora oggi temere per la propria incolumità se si permette di condividere un elenco del genere.
E la lista potrebbe allungarsi moltissimo se si considerassero anche tutte le sciocchezze mormoniche, dei testimoni di Geova, delle sette esoteriche, sataniche, ufologiche e tutto il resto delle imbecillità religiose.

Che l'arte possa essere influenzata dalla fantasia (anche religiosa) è assolutamente accettabile e senza controindicazioni, poiché l'arte è la massima espressione della fantasia.
Il pensiero razionale, la cultura (intesa come educazione, insegnamento, conoscenza) e la politica (finalizzata alla convivenza armoniosa) non possono essere subalterni e condizionati da limitazioni illogiche, improbabili e assolutamente prive di fondamento.

Liberare il mondo dalla dittatura religiosa è un'impresa titanica, che potrebbe però essere supportata da misure di accompagnamento come quelle già proposte e che contribuirebbero persino a fare immaginare qualche successo possibile, per esempio grazie all'insegnamento di una lingua universale (e della relativa cultura universale) o al disarmo generalizzato.
Una ONU con funzioni di governo mondiale di cui il presidente e i ministri fossero più conosciuti del papa o del dalai lama e sulle cui decisioni e affermazioni i notiziari e la stampa riferissero con la medesima attenzione con la quale oggi informano sui discorsi dei capi religiosi, ridimensionerebbe sicuramente l'importanza di questi ultimi.
Se poi, anche sulla moneta universale, che tutti dovrebbero usare, invece dei ritratti degli eroi nazionali venissero lodate le libertà individuali, i diritti dell'uomo, il rispetto reciproco, i fondamentali diritti all'istruzione e alle cure sanitarie, e se tutte queste cose fossero anche tutelate ovunque da governi laici controllati da un governo mondiale, potrebbe diventare addirittura verosimile un mondo con un po' meno religione.

Provare continuamente a individuare i lati positivi della religione e ritenere che gli umani ne abbiano un gran bisogno, significa ritenere giusto il fatto che la gran parte dell'umanità viva nella fantasia e nella superstizione, producendo soltanto moralismi e ostacolando il progresso, la conoscenza e la convivenza tra gli umani.

La criminalità è il prodotto dell'ignoranza, della povertà, della mancanza di rispetto, di educazione, di civiltà ed è frutto di pregiudizi, che a loro volta sono la conseguenza più tipica della religione. Ritenersi moralmente superiori ad altri giustifica lo sfruttamento, la sottomissione, i tentativi di moralizzare o di convertire e provoca la rabbia dei meno fortunati, che si traduce poi in delinquenza.

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La differenza tra nazionalismo e nazismo è molto sottile e, a furia di patriottismo, di amore per il proprio paese, per le proprie origini e per le proprie tradizioni, non si accetta nemmeno l'idea che i confini nazionali siano pure convenzioni, dipendenti da divisioni casuali avvenute in momenti storici particolari, spesso risultanti da guerre e non hanno nulla di assoluto o di intoccabile.

Che le nazioni abbiano degli eserciti a loro difesa, viene ritenuto oggi come un fatto naturale di diritto alla sovranità del paese e ci si dimentica che, fino a qualche secolo fa, lo stesso diritto lo rivendicavano i piccoli regni, i principati autonomi, il papa, le città e tutte le altre strutture dalle quali poi sono nate le nazioni. Oggi nessuno immaginerebbe più l'esercito degli stati confederati d'America e quello dell'Unione, o l'esercito di Milano o quelli dei cantoni svizzeri. Le nazioni, con tutte le difficoltà, gli insuccessi, le ricadute, sono riuscite a unificare gli eserciti, la moneta e spesso anche la lingua.

Che i processi di unificazione siano stati lunghi e tormentati è evidente ed è parte della storia più recente. Che l'unificazione abbia prodotto apertura e che il risultato delle aperture sia stato anche un maggiore benessere economico è fuori di ogni dubbio. Che invece le nuove suddivisioni e chiusure producano il contrario, è dimostrato dalla debolezza economica dei paesi dell'ex Jugoslavia.

L'autonomia, come valore assoluto, porta per esempio alle grandi differenze di benessere nei paesi europei. Se le minime regole non possono essere imposte nemmeno quando la loro mancanza ha prodotto, in certi casi, il disastro finanziario più totale, la logica conseguenza dovrebbe essere quella di ridimensionare l'autonomia e rafforzare l'unione.

La confusione che regna ancora oggi sulla democrazia deriva dall'idea che si tratti di qualcosa di confinato entro i limiti della nazione. Credere che democrazia sia uguale ad autonomia è limitativo, arcaico, nazionalista, retrogrado e religioso (poiché le nazioni sono ritenute protettorati del dio della nazione).

La democrazia invece è saggezza, laicità, buon senso, volontà di convivenza pacifica, rispetto per le minoranze, accettazione assoluta di tutti i diritti dell'uomo, cultura, conoscenza, solidarietà nei confronti di chi ha problemi, diritto all'istruzione, allo studio, alle cure mediche, rispetto del territorio, dell'arte, dell'architettura, dell'estetica, della pulizia, della quiete pubblica e non la dittatura della maggioranza così facilmente influenzabile da populisti religiosi.

In un mondo in cui, in certi luoghi, si è puniti severamente se si ruba una mela o si superano i limiti di velocità, in altri si reprime con le armi la protesta popolare, si uccidono brutalmente tutti quelli che hanno un'altra religione o un altro modo di interpretare la stesse religione, si ruba e ci si arricchisce a spese del popolo, provocando miseria e disoccupazione e costringendo milioni di persone a scappare dalle guerre e dalla povertà.

Intanto i saggi del mondo, i capi delle grandi nazioni decidono come impiegare i loro eserciti a favore di una o dell'altra fazione o di fare affari con le dittature, magari vendendo armi. Nessuno si meraviglia del fatto che i capi di stato possano prendere decisioni, ma nessuno riesce a immaginare un governo mondiale in grado di intervenire. Tutti temono soltanto la dittatura mondiale e nessuno riesce a concepire una democrazia mondiale.

Pensare non significa proporre o, peggio ancora, voler imporre un nuovo ordine mondiale. Pensare logicamente significa immaginare un'alternativa possibile a un funzionamento imperfetto e condizionato da vecchi pregiudizi e dall'idea che le cose sono così perché devono essere così. Il cambiamento è parte del sistema e avviene comunque. Per migliorare la condizione umana occorre liberarsi dal populismo e sviluppare proposte intelligenti e razionali su cui discutere.

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